Dopo Parigi: più fanti che santi

by redazione | 15 Gennaio 2015 9:00

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La nar­ra­tiva sulle vicende del sistema inter­na­zio­nale che pre­vale nel mondo che si sente e si fa sen­tire ovun­que si fonda su un assunto che era o si è rive­lato fal­lace. Le ana­lisi dei fatti prin­ci­pali e anzi­tutto delle crisi più gravi, e le poli­ti­che rela­tive, scon­tano un vizio d’origine. La fine della guerra fredda è stata scam­biata per l’inizio di una sto­ria senza sto­ria in cui, sullo sfondo di un incom­bente e mal defi­nito clash of civi­li­sa­tions, avreb­bero ope­rato fat­tori omo­lo­ganti che si rias­su­me­vano nella glo­ba­liz­za­zione. La frat­tura che si pro­dusse alla fine del Nove­cento come “secolo breve” evi­den­ziava in realtà una crisi di sistema che riguarda l’economia, la tec­no­lo­gia e le comu­ni­ca­zioni oltre alla poli­tica. La stessa fine dell’Unione Sovie­tica e quindi della guerra fredda fu pro­ba­bil­mente più una con­se­guenza della crisi che una causa di quello che sarebbe stato defi­nito da Bush padre il Nuovo ordine mondiale.

Da quella crisi il mondo non è mai uscito. Le vec­chie regole, per quanto strin­genti e osti­che fos­sero, non sono state rim­piaz­zate da nulla di altret­tanto solido e con­di­viso. Il bipo­la­ri­smo è sfo­ciato in un “uni­po­la­ri­smo imper­fetto” che era desti­nato all’instabilità per­ma­nente. L’Occidente, non del tutto a torto, ha cre­duto di aver vinto uno scon­tro epo­cale con le ideo­lo­gie, le forze e le cul­ture che – dall’Ottobre russo a Ban­dung e all’esplosione del ribel­li­smo dei popoli tra­di­zio­nal­mente sog­getti – ave­vano sfi­dato il suo pri­mato asso­luto e si sen­tiva più che mai depo­si­ta­rio della “verità”. Veniva meno la neces­sità di ogni rifles­sione cri­tica. Anche i cor­ret­tivi che per con­ve­nienza erano stati appor­tati al mer­cato e agli isti­tuti di tipo liberal-capitalista, se non altro per atte­nuare le dise­gua­glianze più stri­denti, per­de­vano ogni ragion d’essere. L’“occidentalismo” divenne l’unità di misura del pro­gresso, del buon governo e della moder­niz­za­zione. L’asimmetria su cui ave­vano pro­spe­rato le for­tune dell’Europa e delle sue appen­dici al di là degli oceani era tal­mente scon­tata da non essere nep­pur più per­ce­pita (poco importa se in buona o cat­tiva fede).

Che il mondo sia attra­ver­sato da un’insanabile faglia di senso è emerso net­ta­mente anche negli eventi di Parigi. Misu­rare le tra­ge­die a seconda del numero delle vit­time è offen­sivo per tutti, morti o vivi. Vale per le inon­da­zioni così come per gli atten­tati. Parigi è sicu­ra­mente più impor­tante di Pesha­war, Mai­du­guri o Misu­rata ma ci deve pur essere un motivo se, come ha già detto o scritto qual­cuno, i morti in Europa e Occi­dente si con­tano ancora per unità men­tre in Africa, Medio Oriente e Asia meri­dio­nale le cifre ven­gono arro­ton­date in cen­ti­naia o migliaia.

Non c’è solo il diverso impatto degli atten­tati qua e là a fare la dif­fe­renza fra Nord e Sud. Una mani­fe­sta­zione di poli­tici e di popolo comune come quella, solenne e libe­ra­to­ria, dell’11 gen­naio nella capi­tale fran­cese non potrebbe svol­gersi, e non sarebbe nem­meno imma­gi­na­bile, in gran parte del Sud glo­bale (e non solo per colpa delle ristret­tezze di cui sof­fre il campo della poli­tica nel Sud).

È riso­nata anche in quella dimo­stra­zione la frase fatta che vor­rebbe sca­gio­nare l’islam seb­bene tutte le pre­cau­zioni e le chiu­sure vadano in quella dire­zione. Un po’ buo­ni­smo di maniera (la deriva non si è certo fer­mata) e un po’ secondi fini. Si pensa a pre­ser­vare le rela­zioni così utili con i regimi musul­mani “mode­rati”. Per la stra­te­gia di al-Qaida, se non di Isis, even­tuali pogrom anti-islamici nlle città euro­pee sareb­bero ben­ve­nuti. Era ben noto che la dia­spora musul­mana in Europa sarebbe diven­tata il nodo cru­ciale per gli effetti su di essa dell’inserimento in società demo­cra­ti­che e seco­la­riz­zate e per la novità nel sen­ti­mento degli euro­pei di con­vi­vere con l’ “altro” fuori dell’“altrove”. Nes­suno, se non qual­che ser­vi­zio di intel­li­gence, è in grado di sta­bi­lire con cer­tezza quale sia la filiera che col­lega fra di loro o a un’eventuale casa madre i sin­goli epi­sodi di vio­lenza che tanta impres­sione hanno susci­tato e susci­tano. I rife­ri­menti a al-Qaida e al Daesh sono poco più di un rito anche da parte degli autori in cerca di visi­bi­lità, finan­zia­menti e coperture.

Si può, e si deve, evi­tare di coin­vol­gere tutto l’islam inteso come reli­gione uni­ver­sale, comu­nità di fedeli o appar­te­nenza iden­ti­ta­ria, ma nono­stante i molti equi­voci che accom­pa­gnano quella riven­di­ca­zione, non si può igno­rare l’ispirazione a una qual­che forma di islam poli­tico e, nel momento in cui impu­gna un’arma, mili­ta­riz­zato. Il tra­vi­sa­mento della dot­trina ori­gi­nale ricorre in tutte le “guerre sante”. Che fra gli obiet­tivi di movi­menti, di gruppi sociali o di sin­goli indi­vi­dui (sem­bra essere que­sto il livello “poli­tico” dei jiha­di­sti da ban­lieue) non ci siano solo per­sone o valori occi­den­tali ma anche dei musul­mani, diri­genti o gente comune, non toglie nulla a quell’origine se tutto discende dal ran­core per la sot­to­mis­sione del pas­sato e le com­pli­cità del pre­sente. L’islam è al cen­tro della lotta per il potere e le risorse in Nige­ria, un paese afri­cano dove la crisi ha ori­gini molto diverse e radici che affon­dano nella sto­ria dell’Ottocento. È come se ciò che nelle nostre società post-industriali passa sotto l’etichetta ano­dina di “anta­go­ni­smo”, a livello Nord-Sud si esprima ormai solo o soprat­tutto attra­verso istanze o appelli di carat­tere religioso.

Per chi si oppone a – o si difende da – quella vio­lenza può essere con­ve­niente adat­tarsi allo schema sem­pli­fi­ca­to­rio del fon­da­men­ta­li­smo. È il modo migliore per pren­dere le distanze e dele­git­ti­mare il “nemico”. I ter­ro­ri­sti non sono solo il Male, sono il Medioevo. I più sofi­sti­cati dicono il “loro” Medioevo per­ché sanno che durante il “nostro” Medioevo gli arabi ave­vano anti­ci­pato il Rina­sci­mento. Auto­ma­ti­ca­mente la rea­zione dell’Occidente, anche quando si esprime a sua volta nella vio­lenza dei bom­bar­da­menti e delle ucci­sioni mirate, come ormai è prassi per gestire le crisi in Peri­fe­ria, sov­ver­tendo o annul­lando i con­fini, assume i con­torni del Bene, della Giu­sti­zia e della Moder­nità anche se le poste in palio sono meno auli­che e più mate­riali. Dopo tutto, qual­siasi “etno­cen­tri­smo” (in que­sto caso l’Europa, l’Occidente o addi­rit­tura la civiltà giudaico-cristiana) è un prin­ci­pio che con­trad­dice la moder­nità come intesa dallo stesso Occidente.

Pas­sata l’ emo­zione della prima ora, il raduno di Place de la Répu­bli­que va letto come il modo in cui il “potere” ha cele­brato se stesso e si è autoas­solto. Le guerre inten­tate dagli Stati Uniti o dall’Europa in (se non con­tro) tanti paesi musul­mani, spesso uti­liz­zando o fomen­tando con­flitti locali e agendo senza remore sul diva­rio sunniti-sciiti, non pos­sono essere iscritte all’attivo di una poli­tica di con­te­ni­mento del ter­ro­ri­smo per­ché sono, giu­sto al con­tra­rio, una delle cause che lo pro­vo­cano. A scanso di equi­voci, è una spie­ga­zione, non una giu­sti­fi­ca­zione. Anche nel con­te­ni­mento dell’Urss e del comu­ni­smo nel Terzo mondo si ten­deva arti­fi­cio­sa­mente a pre­sen­tare tutte le vac­che come gri­gie (o rosse). La stessa defi­ni­zione del Calif­fato dell’Isis come stato ter­ro­ri­sta è una for­za­tura. Serve solo a far dimen­ti­care la guerra degli Stati Uniti in Iraq (uno “sba­glio”, dice Gen­ti­loni) e le con­fuse inter­fe­renze nella guerra civile siriana anche in fun­zione anti-Putin.

In Ita­lia, come in tutto l’Occidente, si è par­lato di una dichia­ra­zione di guerra da parte dei ter­ro­ri­sti come se non ci fos­sero già in corso – con o senza una dichia­ra­zione for­male – guerre in Libia, Iraq, Afgha­ni­stan e Siria. Il “Cor­riere della Sera” fa di tutto per rie­vo­care l’11 set­tem­bre e ripro­pone i “clas­sici” Fal­laci e Ter­zani. Neltalk-show più audace sulla Sette si incita a un inter­vento espli­cito per abbat­tere Assad. Chissà per quale mira­colo qui non si ripe­te­reb­bero i disa­stri della scia­gu­rata guerra con­tro Ghed­dafi. Nes­suno si chiede o chia­ri­sce a quale titolo si agi­rebbe. Obama, che si vanta di aver rac­colto una ses­san­tina di paesi nella coa­li­zione per com­bat­tere Isis, tiene fuori accu­ra­ta­mente l’Onu per non intral­ciare le pro­prie scelte (per di più ondivaghe).

I pale­sti­nesi sono usciti “per­denti” dagli ultimi scon­vol­gi­menti poli­tici e mili­tari del Medio Oriente. Que­sto non dovrebbe auto­riz­zare a per­pe­tuare il con­flitto che è stato la madre di tutte le guerre in Medio Oriente né a ria­bi­li­tare il primo mini­stro israe­liano, Neta­nyahu, anche come refe­rente dell’ebraicità, dando una spinta ulte­riore alla discussa tra­sfor­ma­zione di Israele in stato ebraico. La can­cel­la­zione dall’agenda della “que­stione israe­liana” come effetto col­la­te­rale dell’eccidio nella reda­zione di “Char­lie Hebdo”?

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