Le donne di Wolinski
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PARIGI. MARYSE, LA DONNA DI BELLEZZA RADIOSA E PICCANTE che è stato il modello delle fantasie di Georges, le parigine libere da pregiudizi e da culottes (“Bisogna nazionalizzare la felicità”, è una sua didascalia), sua moglie negli ultimi quarant’anni, si aggira oggi nel suo studio, e scopre un disegno che non aveva ancora visto, tra le migliaia di carte di Wolinski, gli ottanta libri, e i libri degli amici artisti: «Ma che strano, che strano…». C’è una coppia distesa, sono nudi. Lei abbraccia lui, di spalle; e l’uomo, che vediamo di fronte, con una mano tiene il braccio di Dio.
Sul tavolo di Georges Wolinski, il più anziano e il più celebre tra i vignettisti uccisi mercoledì nella redazione di Charlie Hebdo, c’è l’articolo di Le Point per il suo ultimo libro, quello in cui le donne si sposano tra loro: è intitolato Il più fallocrate dei femministi pubblica il suo primo romanzo grafico . C’è lo scrittoio mobile, di un legno dorato dal tempo, che viene da Washington: «Georges pensava che fossero i tavoli più funzionali». C’è il libro che Georges stava leggendo: Houellebecq. Ma non hanno fatto in tempo a commentarlo. Lo studio è pieno di finestre e di luce, come il salotto dell’appartamento elegantissimo in cui hanno vissuto in affitto, godendo del lavoro e di tutti i piaceri della civiltà francese. Parliamo dell’Italia, dove andavano spesso; Maryse ricorda il pomeriggio in cui a Firenze si sono trovati soli davanti alla Venere di Botticelli: «Georges piangeva». Maryse ha tutti i talenti: autrice di saggi, romanzi, canzoni, per la tv e per il teatro; gli ha dato una figlia luminosa, Elsa, e soprattutto ha creato per lui un matrimonio d’amore vivo, celebrato nel 2002 con Chambres à part, camere separate — uno dei loro segreti.
Con Ella, la sorella, si passa ai ricordi d’infanzia. «SÌ eravamo ebrei ma non eravamo praticanti», racconta .
«A Tunisi erano i miei nonni che tenevano gli oggetti di culto della sinagoga; per le cerimonie, venivano a cercarli da noi. La sinagoga portava il nome di nostro nonno, ed è stata bruciata durante la guerra. Ma mio nonno prendeva il caffè tutti i giorni col grande imam della Tunisia, Sid’Hamoud credo si chiamasse; erano molto amici. E l’imam gli diceva: “Sai, David, se un giorno c’è la guerra santa ti ucciderò”. Hamoud era sempre seduto vicino alla cassa della pasticceria di mio nonno e io andavo a sedermi sulle sue ginocchia; era veramente un brav’uomo».
Parla dei nonni, la sorella di Wolinski, perché prestissimo i fratellini (nati a Tunisi, lei nel 1930, Georgie, come l’hanno sempre chiamato, nel 1934) si erano ritrovati senza i genitori. Il padre era un ebreo polacco in fuga dalla Polonia; era sbarcato in Tunisia travestito da donna araba. «Fu nascosto da amici; poi conobbe nostra madre, e il nonno, che era un uomo straordinario, lo accolse e lo aiutò a mettere su una fabbrica di ferro battuto; cominciava a essere famoso in Tunisia quando venne assassinato. La fabbrica aveva dei problemi e nostro padre era stato costretto a licenziare un giovane italiano; si chiamava Matta, aveva diciannove anni. Hanno detto che i comunisti gli avevano montato la testa, non so; era venuto a implorare nostro padre che lo riprendesse, ma non era possibile. Allora tirò fuori un’arma e gli sparò. Georgie aveva due anni, io sei e mezzo; fummo affidati ai nonni».
La madre di Wolinski era di origini italiane, livornesi; Georges in casa parlava italiano. Alla morte del marito, questa donna, Allegrina, prese da lui la tubercolosi e si ammalò in modo gravissimo; partì per l’Algeria e poi per la Francia per curarsi. «La mancanza dei genitori, terribile, c’era. Tra di noi il legame era fortissimo; eravamo sempre insieme. Con la mamma avevamo contatti solo tramite i telegrammi della Croce Rossa. Ed è così che, nel ‘43, sapemmo che avevamo una sorellina. Nel ‘45 rivedemmo nostra madre, che sbarcò con la prima nave in arrivo dalla Francia; noi eravamo sulla banchina con i nonni. Aveva un fagottino, era la piccola Louison».
Ora è lei, Louison, a prendere la parola. «C’era uno zio, Victor Bembaron, fratello maggiore della mamma, che era il rappresentante del Partito comunista italiano a Tunisi; era stato in un campo di concentramento con Bourguiba. Furono liberati dagli americani e mia madre litigò con il fratello perché pensava che ci fossero i comunisti dietro l’assassinio del marito. Lo zio è stato molto importante per Georgie, una figura paterna. Del resto c’è tutta una fila di comunisti nella sua formazione».
Fine della Tunisia: Georges andava male a scuola, e la mamma, rientrando in Francia, lo prese con sé. Andarono a Briançon, a vivere in un sanatorio tra le montagne — il nuovo marito della mamma era infermiere. Per Georges fu la scoperta dell’inverno: in Tunisia solo mare e deserto; «Non pensavamo che potessero esserci tanti inverni diversi», ricorda Louison. «Con Georgie leggevamo tantissimo e disegnavamo enormemente, con le matite. Georgie faceva morire dal ridere, le sue battute erano irresistibili. Leggemmo tutto Jules Verne, insieme; lui era più piccolo e leggeva più lentamente: quando giravo la pagina si arrabbiava perché non aveva finito».
Nel ‘53 la famiglia si trasferisce a Parigi, in banlieue, in cinque in due stanze, Georgie in soffitta. «Ci si lavava in cucina e il bagno era in cortile; si mangiava nel vicino negozio di camicie e cravatte perché in casa non c’era spazio. Era la miseria ». Ma a scuola — oggi il liceo Marcellin Berthelot è diventato un istituto d’élite — c’erano docenti d’eccezione, la storica Madeleine Rebérioux, del Partito comunista, e in filosofia Roger Garaudy, oggi convertito all’Islam. Lì Georges incontra la futura moglie Jacqueline, bella come una vestale greca, di famiglia agiata: abbandona la scuola e il lavoro nella maglieria di lusso dai suoceri, lei si mette a fare la maestra per mantenere la famiglia; ebbero due figlie, Frédérica e Natasha. È stata Natasha, in un bel romanzo del 2011, a resuscitare il dramma di Georges e Jacqueline. Jacqueline s’innamorò di Jacques Serguine, gradevole scrittore di fantasie erotiche. «Doveva sentirsi molto colpevole, in quegli anni lontani », immagina Louison, che oggi fa la psicanalista. «Pensava, credo, di separarsi; l’estate partirono come al solito per Juan les Pins dove i suoceri avevano pure un negozio: guidando, per evitare un cane, Jacqueline ebbe un incidente. Morì. Georgie dormiva sul sedile di dietro, e si ruppe solo un braccio». Era il 1966; questo secondo lutto, dopo quello del padre, fu per Georges difficile da superare. In tutto il suo lavoro, il delizioso irriverente spirito di rivolta, nel fervore politico inesausto, ma sciolto nel riso — perfino nel gusto per le donne, che nel periodo di vedovanza assume forme «maniacali», dice la sorella — c’è l’ombra di queste assenze. “Non ho molte soluzioni di fronte al problema della morte, e soprattutto non Dio. Un umorista non può credere nella religione”, ha scritto Wolinski. “Perché un umorista è un uomo solo, e ha paura. Per lui, la paura della morte in particolare, nulla può guarirla. L’umorista lotta contro la fabbricazione delle leggende che cercano di spiegarla”. Ricordo Georges che prendeva appunti; tutto quello che di ridicolo offre lo spettacolo degli uomini suscitava il suo tratto divinatorio; era stato Cavanna — l’autore di Ritals, il romanzo forte e comico dell’immigrazione italiana —, agli inizi di Hara Kiri a correggerlo dai tratteggi troppo folti e particolareggiati: lo aveva visto, a una riunione di redazione, tracciare schizzi sommari e corrosivi, e glieli aveva additati. Era lì il suo genio. E il resto è storia. Georges era un amico dolcissimo, a parlarne mi manca la voce. E Maryse mi dice, con la sua grazia militante: «Non bisogna piangere».
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