Così l’«eroica» Kobane è diventata la tomba delle milizie del Califfo

Così l’«eroica» Kobane è diventata la tomba delle milizie del Califfo

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Le case distrutte a Kobane sono le tombe dell’Isis. Dozzine di mujaheddin sono stati uccisi nel tentativo di conquistare la cittadina curda tra Siria e Turchia. I sogni di gloria del Califfo, abile politico ma, in questo caso, pessimo stratega, si sono infranti su due grandi ostacoli: la resistenza dei difensori e i raid aerei alleati.
Quando in estate il movimento jihadista ha sferrato la sua offensiva era convinto di una vittoria lampo, realizzata con alta mobilità e potenza di fuoco. In pochi giorni i militanti curdi dell’Ypg erano stati costretti a ripiegare a ridosso della frontiera. La caduta di Kobane era data per imminente. Da tutti. Turchi, americani, osservatori. Poi, inattesa, la svolta.
La presenza delle telecamere e dei giornalisti che documentavano in tempo reale l’agonia di Kobane ha dato la sveglia. E il Pentagono, che inizialmente aveva liquidato la battaglia come un episodio insignificante, ha cambiato idea. Così ha mobilitato la coalizione che ha iniziato a martellare le posizioni dell’Isis. A oggi gli Usa e gli alleati hanno condotto 190 raid a protezione della città. Una quota importante delle 1.617 incursioni tra Siria e Iraq.
L’aiuto dal cielo ha dato una copertura formidabile alla tenacia dei guerriglieri curdi dell’Ypg, spalleggiati da un piccolo nucleo di insorti siriani e da un centinaio di peshmerga arrivati dal Kurdistan iracheno. Senza voler togliere onore e meriti ai difensori, è evidente che l’intervento di droni e caccia ha salvato Kobane.
Per prenderla, gli islamisti le hanno provate tutte. Prima hanno impiegato armi pesanti — compresi i tank — poi per ridurre l’esposizione ai jet, hanno ridotto le unità. Hanno scavato tunnel per sorprendere gli avversari. Quindi si sono affidati alle azioni suicide. Giganteschi camion blindati, con a bordo kamikaze e tonnellate di esplosivo, hanno tentato di sfondare le linee. I veicoli bomba hanno aperto brecce, ma non hanno travolto il bastione.
In alcuni momenti i curdi sono sembrati capitolare, ma poi è sempre arrivata la cavalleria, intesa come l’aviazione che ha inferto colpi di maglio terrificanti, favorita anche da informazioni passate dai peshmerga attraverso una sorta di sala operazioni remota. Per dare l’idea delle operazioni citiamo il comunicato alleato del 2 gennaio: «Attaccate una grossa unità e una posizione da combattimento, distrutti 4 edifici Isis, 10 posizioni da combattimento e un tank».
Giorno dopo giorno, raffiche di mitragliatrice tirate da postazioni ben mimetizzate e le bombe al laser sganciate su quella strada o su un incrocio hanno aperto vuoti nelle file islamiste. Il Califfo ha mobilitato reparti scelti composti da «ceceni», termine usato spesso per indicare i militanti più preparati. Insieme a loro molti combattenti locali e i volontari stranieri. Tanti i «martiri», documentati dagli annunci sul web con foto di cadaveri avvolti nel sudario o sotto le macerie. Sauditi, francesi, britannici inghiottiti dalla «fornace».
C’è chi ipotizza — esagerando — che la storia di Kobane sia stata una trappola studiata a tavolino dal comando centrale: alzando la posta ha costretto Al Baghdadi a inviare altre forze e a esporle ai raid. Per il Califfo mollare la presa sarebbe una sconfitta. In realtà sono stati gli eventi a modellare lo scenario.
Lo Stato islamico ha registrato successi in Iraq ma qui ha pagato pegno e non è mai sembrato considerare lo scontro come un episodio secondario. Voleva e vuole sbarazzarsi di questa spina nel fianco.
Morale. Kobane ha tenuto, anche se l’Isis è rimasto una minaccia, contrastata da 10-12 incursioni aeree al giorno. Difficile dire cosa rimarrà in piedi di un luogo che fino a pochi mesi fa era solo un punto geografico.
Guido Olimpio

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