Così l’America ha perso la sua guerra più lunga

by redazione | 4 Gennaio 2015 16:45

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«Cir­cola la voce che un gruppo di atten­ta­tori sui­cidi sia pronto a entrare in città. Ci aspet­tiamo il ‘gran botto’ da un momento all’altro. Niente di nuovo: solo per avver­tirti della situa­zione in città». Con que­ste parole Abdul Qadeer Wafa mi acco­glie a Lash­kar­gah, capo­luogo dell’Helmand, nel pro­fondo sud dell’Afghanistan. In que­sta pro­vin­cia ster­mi­nata al con­fine con l’Iran, 2 milioni di abi­tanti per 60 mila chi­lo­me­tri qua­drati, i com­bat­ti­menti pro­se­guono inin­ter­rotti, da anni. I Tale­bani non hanno mai smesso di pic­chiare duro, di con­qui­stare ter­reno, di instal­lare governi “ombra”, di attac­care le posta­zioni gover­na­tive e i sol­dati stra­nieri. «Le truppe stra­niere ci hanno pro­vato a lungo, ma il risul­tato è evi­dente: i Tale­bani sono ancora qui, gli stra­nieri se ne sono andati», sin­te­tizza Wafa, che lavora per una orga­niz­za­zione inter­na­zio­nale e col­tiva la pas­sione per il giornalismo.

Il 28 dicem­bre si è con­clusa la mis­sione di com­bat­ti­mento Isaf della Nato. A Kabul si è svolta una ceri­mo­nia uffi­ciale con cui è stata inau­gu­rata la nuova mis­sione, «Reso­lute Sup­port», che pre­vede il soste­gno e l’addestramento delle forze di sicu­rezza afghane: 13 mila sol­dati stra­nieri (a cui vanno aggiunti i con­trac­tor pri­vati, le forze spe­ciali e gli uomini della Cia) per sup­por­tare i 350 mila mem­bri delle forze di sicu­rezza locali. Il gene­rale John Cam­p­bell, a capo della nuova mis­sione, ha usato parole solenni: «Abbiamo con­dotto il popolo afghano fuori dal buio della dispe­ra­zione, dando loro la spe­ranza per il futuro». Ma Abdul Qadeer Wafa non ha grandi spe­ranze: «Non vedo nes­sun segnale inco­rag­giante. Al con­tra­rio, sono molto pre­oc­cu­pato». Nel discorso con cui ha cele­brato «la fine respon­sa­bile» della guerra più lunga degli Stati Uniti, per­fino Barack Obama ha ammesso che il paese cen­troa­sia­tico non è stato paci­fi­cato: «L’Afghanistan rimane un luogo peri­co­loso», ha affer­mato a ridosso della ceri­mo­nia del 28 dicembre.

Qui a Lash­kar­gah il peri­colo assume forme diverse. «La sicu­rezza intesa come inco­lu­mità fisica è il primo dei nostri pro­blemi, ma ce ne sono molti altri», sostiene Abdul Rafar Esha­q­zai, che dirige l’associazione Società civile dell’Helmand. «Abbiamo 1.200 mem­bri, cono­sciamo bene la realtà di que­sta pro­vin­cia», spiega Esha­q­zai. «I pro­blemi sono aumen­tati, anzi­ché dimi­nuire: man­cano le scuole, gli ospe­dali, le moschee, il lavoro. Soprat­tutto, manca la giu­sti­zia. La legge non c’è. I poveri fini­scono in pri­gione. I cri­mi­nali sono al potere».

Mafia poli­tica ed economica

Anche per Rohul­lah Elham, gio­vane gior­na­li­sta e rap­pre­sen­tante regio­nale del Civil Society and Human Rights Net­work, «il pro­blema non sono sol­tanto i Tale­bani, ma l’intreccio tra cri­mi­na­lità comune, Tale­bani, fun­zio­nari gover­na­tivi, mafia poli­tica ed eco­no­mica, omertà e cul­tura dell’impunità». Giacca vio­letta, occhi cele­sti e, sul bavero della giacca, una spilla con­tro la discri­mi­na­zione delle donne, Elham fa suo un pen­siero molto dif­fuso in Afgha­ni­stan: «Ci sono due cate­go­rie di Tale­bani. Quelli che si ribel­lano al governo, alla cor­ru­zione, all’ingiustizia, e quelli finan­ziati dall’esterno. I Tale­bani locali si scon­fig­gono con il buon governo, con la tra­spa­renza, con un’amministrazione che risponda ai biso­gni dei cit­ta­dini. Spe­riamo che il nuovo governo dia prova di essere al ser­vi­zio di tutti gli afghani». L’allusione è al governo di unità nazio­nale che si è inse­diato il 29 set­tem­bre, dopo una lunga con­tesa sugli esiti elet­to­rali del bal­lot­tag­gio del 14 giu­gno tra Ash­raf Ghani, ora pre­si­dente, e Abdul­lah Abdul­lah, ora «chief of exe­cu­tive offi­cer», qual­cosa come un primo mini­stro.
Dopo i tre­dici anni di governo-Karzai con­tras­se­gnati da cor­ru­zione, nepo­ti­smo, sfi­du­cia nelle isti­tu­zioni, le aspet­ta­tive sul nuovo governo erano alte. Ma sem­brano già archi­viate. «Aspet­tiamo la for­ma­zione del governo e le nomine dei mini­stri da ben tre mesi», lamenta uno dei mem­bri della Società civile dell’Helmand, l’ingegnere Shah Mah­moud. «Abbiamo votato per una sola per­sona, ora ci tro­viamo con tutte e due i can­di­dati al governo. Le sem­bra nor­male?», chiede reto­ri­ca­mente Shah Mah­moud, che iro­nizza sul governo “bice­falo”: «Qui in Afgha­ni­stan da tempo esi­stono i doppi governi. Quello uffi­ciale, gover­na­tivo, e quello paral­lelo, dei Tale­bani, che hanno i pro­pri gover­na­tori “ombra” nelle aree da loro con­trol­late. Ora la for­mula è stata uffi­cia­liz­zata!», aggiunge divertito.

Molto meno diver­tito appare Ahmad Mas­sod Baq­ta­war, vice-governatore della pro­vin­cia (nel frat­tempo sosti­tuito, ndr). La fronte alta, un vestito bianco appena sti­rato, Baq­ta­war mi acco­glie nel suo ele­gante uffi­cio. Alle spalle della scri­va­nia cam­peg­giano la foto del pre­si­dente Ghani e un’ampia mappa dell’Helmand: «Que­sta è la pro­vin­cia più estesa del paese, col­lo­cata in una posi­zione stra­te­gica. È ovvio che i Tale­bani abbiano pun­tato l’attenzione pro­prio qui», ammette pre­oc­cu­pato, men­tre mi mostra le rotte di pas­sag­gio degli insorti, dal sud-est verso il nord della pro­vin­cia e del resto del paese. «È vero, ci sono anche alcuni Tale­bani locali, ma la mag­gior parte sono stra­nieri. Nell’Helmand è in corso una guerra per pro­cura, voluta e ali­men­tata dai ser­vizi segreti stra­nieri. I Tale­bani che ope­rano in quest’area pro­ven­gono dal Paki­stan, dall’Iran, dall’Uzbekistan, dalla Cece­nia. È una guerra regio­nale e inter­na­zio­nale. Per que­sto abbiamo ancora biso­gno del soste­gno eco­no­mico e di equi­pag­gia­mento della comu­nità inter­na­zio­nale», sostiene il vice-governatore. Per il quale serve una dop­pia stra­te­gia: «Ai Tale­bani locali chie­diamo di unirsi al governo, di abban­do­nare le armi. Ai secondi non faremo sconti. Le nostre forze di sicu­rezza sono in grado di sconfiggerli».

Un inci­dente come gli altri?

«Certo che siamo pronti, al 100 per cento», riba­di­sce Haji Wasi Samini, gene­rale di bri­gata, il numero due del corpo della Poli­zia dell’intera pro­vin­cia. Per dimo­strarlo, snoc­ciola dati, i più recenti: «In 15 giorni i miei uomini hanno tro­vato e disin­ne­scato 129 bombe, ucciso 32 ter­ro­ri­sti, arre­stato 19 sospetti, seque­strato 50 kg di droga, 2 vei­coli e 7 moto­ci­clette e con­dotto molte ope­ra­zioni di suc­cesso». Quando gli chiedo di Camp Bastion, il gene­rale si irri­gi­di­sce. Sol­tanto un mese dopo essere pas­sata dalle mani dei sol­dati inglesi in quelle afghane, la base mili­tare è finita per 48 ore sotto il tiro dei Tale­bani. «Un inci­dente tra gli altri, nulla di signi­fi­ca­tivo», ribatte Samini. «Altro che inci­dente, è un segnale gra­vis­simo», replica indi­ret­ta­mente Zai­nul­lah Sta­ne­q­zai, a capo dell’associazione dei gior­na­li­sti dell’Helmand, cor­ri­spon­dente per l’agenzia Paj­h­wok. «Inu­tile negarlo, le cose non sono andate come ci aspet­ta­vamo. Quando sono arri­vati gli stra­nieri, era­vamo pieni di aspet­ta­tive. Ora se ne vanno, dopo aver speso un muc­chio di soldi, ma di bene­fici dura­turi non ne vediamo. L’economia è fra­gile, il rap­porto tra il governo e la popo­la­zione è fon­dato sul sospetto, sulla man­canza di fidu­cia». Soprat­tutto, aggiunge Sta­ne­q­zai, «i Tale­bani sono forti, qui nell’Helmand come in molte altre pro­vince del paese. Con­ti­nuano a com­bat­tere, con la stessa deter­mi­na­zione di prima. Chiun­que sia one­sto non può che ammet­terlo: gli stra­nieri sono venuti qui per scon­fig­gere i Tale­bani. Ma hanno perso».

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