Il buco nero dei diritti umani tra decapitazioni e frustate «Stessi metodi del Califfato»

by redazione | 24 Gennaio 2015 10:26

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In un video diffuso online la scorsa settimana, e girato con un cellulare alla Mecca, si vede una donna in nero seduta sull’asfalto. Condannata a morte per l’omicidio della figliastra di 7 anni, la donna protesta la propria innocenza. «Non ho ucciso! Non ho ucciso!». Ma un boia vestito di bianco la colpisce al collo, per tre volte, con un spada che poi pulisce con un panno, mentre il cadavere viene portato via.
La diffusione di quel filmato e la fustigazione pubblica (recentemente rimandata dopo gli appelli di Usa e Onu) del blogger Raif Badawi, condannato a 1.000 frustate per «offesa all’Islam», hanno portato nuova attenzione sull’interpretazione della sharia e l’applicazione della pena capitale in Arabia Saudita. All’indomani della morte di re Abdullah, Amnesty International ha condannato «l’assenza totale di diritti umani» nel Paese, e ha denunciato un aumento degli arresti «di attivisti, blogger e di chiunque critichi la leadership politica e religiosa saudita», anche sui social network.
Qualche giorno fa il sito web «Middle East Eye» ha pubblicato un confronto tra le pene inflitte dall’Isis in nome della legge islamica nei territori dell’autoproclamato «Califfato» e quelle corrispondenti applicate da Riad: in casi di blasfemia, omicidio, omosessualità è prevista la morte; l’adulterio è punito con la lapidazione se sposati, altrimenti con 100 frustate; l’amputazione è contemplata per i ladri, e così via. Anche se «l’applicazione effettiva di queste pene è in realtà diversa — riconosce lo stesso sito — poiché l’Arabia Saudita raramente, se mai, arriva a giustiziare per blasfemia o adulterio» e molto dipende dalla discrezionalità dei giudici, diversi studiosi notano il legame «teologico» basato sulla rigidissima interpretazione wahhabita dell’Islam. Il paragone con la morte di giornalisti come James Foley è evocato dal direttore di Amnesty, Salil Shetty: «Critichiamo l’Isis, ma a Riad c’è un governo che ha effettuato più di 60 decapitazioni pubbliche negli ultimi mesi». Secondo «Human Rights Watch» le esecuzioni sono state 87 nel 2014 e 11 finora nel 2015, per crimini come stupro, omicidio, traffico di droga. Spesso si tratterebbe di decapitazioni, ma il governo tende a non pubblicizzarlo (e l’autore del video della Mecca è finito in manette).
Nel frattempo il Paese fa parte della coalizione Usa contro l’Isis. La preoccupazione per l’ascesa del «Califfato» è genuina, come dimostra il muro di 600 miglia in costruzione lungo il confine con l’Iraq, dove tre guardie sono state di recente uccise. L’Isis, come già Al Qaeda (a partire dal saudita Bin Laden), disputa la legittimità, basata sulla religione, del potere della famiglia Al Saud. Ma l’atteggiamento dell’élite saudita — osserva tra gli altri l’ex agente dell’intelligence inglese Alastair Crooke — è ambivalente: alcuni appoggiano i miliziani sunniti perché combattono gli sciiti, altri ne hanno paura.
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