55 ore di assedio e l’attacco finale
È solo il primo di tanti momenti tra il drammatico e l’incredibile. Un dipendente dell’azienda, Lilian Lepère, 26 anni, si nasconde nei locali della CTD, tra gli scatoloni, sotto a un lavandino. Da lì comunica all’esterno mandando sms alla polizia. È così che prende corpo l’idea che i terroristi abbiano preso un ostaggio. Ma i fratelli Kouachi neanche sanno di averlo, un ostaggio: Lepère ne approfitta e continuerà ad aiutare gli agenti fino al pomeriggio, informandoli di nascosto dei movimenti dei terroristi islamici.
Tutta la Francia ormai sa che i terroristi sono individuati e braccati e alle 10, in redazione a Parigi, il reporter Igor Sahiri del canale all news BfmTv fa il numero della tipografia sperando di parlare a un dipendente, un possibile testimone. Ad alzare la cornetta è invece lo stesso Chérif Kouachi. Dice al giornalista di agire per conto di «Al Qaeda dello Yemen», di essere stato formato dall’imam Anwar Al Awaki (ucciso da un drone americano nel settembre 2011), e giustifica la strage di Charlie Hebdo definendo lui e suo fratello «difensori del profeta». Ancora una volta, assicura di non volere uccidere civili. E Charlie Hebdo? «Non erano civili, ma bersagli».
Nel frattempo, le forze speciali del GIGN (Groupe d’Intervention de la gendarmerie nationale) si preparano a dare l’assalto.
I gendarmi passano casa per casa ordinando agli abitanti di non uscire, di tenere le persiane chiuse e di restare lontano dalle finestre. A circa un chilometro in linea d’aria dalla tipografia, centinaia di studenti del liceo sono bloccati dentro il loro istituto, anche loro con finestre e persiane chiuse. I giornalisti radunati lì vicino sentono, più volte, i ragazzi che gridano in coro. È commovente. «Charlie, Charlie, Charlie!», «Je suis Charlie»: solidarietà alle vittime di mercoledì, sberleffo e sfida ai terroristi. Negli stessi minuti, ospitati nei locali di Libération a Parigi, i superstiti di Charlie Hebdo tengono la loro prima riunione di redazione della nuova era, quella senza Charb, Wolinksi e gli altri.
I francesi guardano a Dammartin-en-Goële, sperano che l’incubo cominciato mercoledì finisca presto ma – in quel momento appare incredibile – ne comincia un altro. Intorno alle 13, a Parigi, nella zona di Vincennes, un uomo armato di fucile d’assalto e kalashnikov fa irruzione sparando in un supermercato kosher (ebraico). Fa subito quattro vittime (si scoprirà poi), e prende degli ostaggi. Il terrorista è Amedy Coulibaly, 32enne nato in Francia come i suoi amici Kouachi, e come loro vecchia conoscenza di tribunali, prigioni e servizi segreti. La mattina precedente Coulibaly, a Montrouge, ha ucciso a sangue freddo l’agente municipale Clarissa Jean-Philippe, 25 anni, che si era avvicinata all’auto del terrorista coinvolta in un tamponamento. «Non c’è alcun legame con Charlie Hebdo», si erano affrettate a dichiarare le autorità. Invece c’è eccome.
«Ci siamo sincronizzati, io e i fratelli Kouachi», dice intorno alle 15 Coulibaly in un’altra surreale telefonata a Bfm Tv, che come quella di Chérif Kouachi verrà resa pubblica alla fine della giornata. Stavolta è lui a prendere l’iniziativa di chiamare i giornalisti, vuole essere messo in contatto con la polizia, con Hollande e il premier Valls. Spiega che con i Kouachi si erano divisi i compiti: «A loro Charlie Hebdo, a me i poliziotti». Aggiunge di essere affiliato allo Stato islamico. Con lui c’è la compagna e complice Hayat Boumeddiene, 26 anni. Alcune foto impressionanti li ritraggono, qualche anni fa, mentre si esercitano a usare pistola e balestra, lei coperta dal burqa. Coulibaly poi telefona a compagni jihadisti, li esorta a uccidere poliziotti, ad attaccare commissariati.
A questo punto della giornata, la Francia si trova con due fronti aperti: a Dammartin l’assedio ai fratelli Kouachi; a Parigi, nella zona di Vincennes, la presa di ostaggi al supermercato. Per qualche istante sembra che se ne apra un terzo, ed è quello il momento psicologicamente più drammatico per una città provata. La polizia ha la segnalazione di un uomo armato tra la spianata del Trocadero e la stazione del metro. Centinaia di agenti si precipitano e decine di auto accorrono a sirene spiegate. Alcuni turisti racconteranno di essere stati spinti dai poliziotti nel vagone del treno, di corsa, perché lasciassero immediatamente la stazione. Partito il convoglio, la linea 6 del metro viene interrotta, il Trocadero evacuato anche in superficie. Una foto mostra un poliziotto che si avvicina alle scale che scendono nella metropolitana, con la pistola in pugno e il braccio teso. Dopo pochi minuti il ministero dell’Interno assicura che la zona è stata perlustrata e che l’allarme si è rivelato falso, proprio come quello del giorno prima alla Défense. Ma la gente è stravolta, nei bar e nei taxi si sentono solo le cronache in diretta di radio e tv.
Oltre 80 scuole sono state chiuse vicino al supermercato ebraico, i bambini fatti uscire in fretta. Ma chi va a prendere i figli a scuola an-che negli altri quartieri di Parigi, intorno alle 16, trova affisso sul portone il grande cartello «Plan vigipirate, Alerte Attentat» che è esibito in tutti gli uffici pubblici. È il livello massimo di allerta del piano anti-terrorismo, dovrebbe rassicurare ma ottiene l’effetto contrario, per genitori e figli.
A Vincennes il silenzio è totale, il traffico bloccato a centinaia di me-tri dal supermercato. Tram e autobus non circolano, anche la tangen-ziale è evacuata, si vive nella sospensione. La rottura dell’attesa arriva però da Dammartin, dove finalmente le teste di cuoio del GIGN entrano in azione, alle 17, su ordine di Hollande. I fratelli Kouachi hanno tenuto fede al loro proposito, alla prima avvisaglia del raid hanno cercato il martirio uscendo allo scoperto e provando a uccidere ancora. Sono stati abbattuti quasi immediatamente.
La resa dei conti finale è inevitabile, appena 10 minuti dopo ecco i reparti speciali della polizia entrare in azione a Vincennes. Alzano la saracinesca della porta principale e cominciano a fare fuoco. Si vedono chiaramente i corpi delle vittime, morte subito, alle 13, e da allora rimaste lì, sul pavimento del supermercato. I primi agenti entrano, gli altri continuano a sparare, e a un certo punto nel video di France 2 ecco Amedy Coulibaly, il terrorista islamico, che corre incontro ai poliziotti e alla morte. Va verso l’uscita, riesce quasi a imboccare la porta mentre si mette le mani alla testa con un gesto automatico di protezione, mentre gli agenti lo crivellano di colpi.
Dall’altra porta gli ostaggi corrono in modo disordinato, un papà tiene in braccio il suo neonato, una donna non sa dove andare e viene caricata sulle spalle da un gigante in elmetto e tenuta d’assalto. Tra loro, forse, c’è anche Hayat Boumeddiene, la compagna jihadista, che potrebbe essersi mescolata agli ostaggi per fuggire. Di lei si sono perse le tracce. Potrebbe colpire ancora.
Ma è finita, per adesso. I tre terroristi islamici sono stati uccisi. Gli ostaggi salvati. Resta l’immenso dolore per i 12 morti di mercoledì, e per i quattro clienti del supermercato uccisi subito, all’inizio dell’azione di Coulibaly. Un video di Al Qaeda nello Yemen rivendica le azioni terroristiche, inneggia ai martiri e minaccia altri attentati: «Non sarete al sicuro finché non smetterete di combattere Allah, il suo messaggero e i suoi fedeli».
Ma la Francia sente che i suoi tre giorni di orrore senza precedenti sono conclusi. Hollande può dire in tv «siamo stati all’altezza». Giovedì la Tour Eiffel ha spento le sue luci alle 20, in segno di lutto. Ieri sera, sull’Arco di Trionfo, una scritta splendente: «Paris est Charlie».
Stefano Montefiori
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