Sharia e decapitazioni: nella città fantasma del Califfato di Libia

by redazione | 1 Dicembre 2014 10:55

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BEIDA (Libia) Quando le bandiere nere del puro Islam arrivarono a Derna, le due bulgare dell’ospedale al Harish provarono a sventolare la loro bandiera bianca. «Siamo solo infermiere…», andarono a presentarsi ai nuovi padroni. Un capoccia le convocò nella hall del Pearl Hotel, diventato il quartier generale di Ansar al Sharia: voi bulgari siete cristiani? Silenzio. Avete deciso di rimanere qui? Silenzio. Volete la nostra protezione? «Sì». Va bene: 50 euro al mese, un quinto del vostro stipendio, e nessuno vi toccherà… Per un paio d’anni, le due infermiere hanno pagato e si sono sentite tranquille. Curavano i neonati, mai il naso fuori. In fondo erano a Derna dall’epoca di Gheddafi, che le considerava tutte untrici d’Aids, erano scampate a tre anni di guerra civile: magari ce l’avrebbero fatta anche stavolta…

Le cose sono cambiate pochi giorni fa, quando Derna ha ripreso l’antico nome ed è diventata il Califfato libico di Barqa. Dall’Iraq è comparso un iracheno di Mosul, l’uomo dell’Isis. Che nessuno sa come si chiami ma chiunque, avendoli visti insieme in tv, riconosce come l’inviato del neocaliffo Al Baghdadi. «Siete delle infedeli e pagare non basta — è stato il nuovo editto —. Chi rimane qui, da oggi si deve convertire».
I racconti di Derna, o di Barqa, somigliano alle leggende nere del peggiore Jihadistan. «L’ospedale funziona solo per le emergenze, quasi tutti i medici sono scappati — racconta M. H., che ha mandato la famiglia a Beida —. Le scuole sono svuotate da giugno, donne e bambini se ne sono andati. La centrale elettrica macinava 100 megawatt: ora non supera i venti». Anche le banche non vanno più: l’ultima ha chiuso due settimane fa perché sono spariti quattro milioni di dinari, due milioni d’euro, e si sospetta un impiegato infedele tanto alla ditta quanto all’Islam. A Tobruk, a Cirene, in ostelli e case sfitte s’incontrano migliaia in fuga dallo spavento senza fine di Bengasi, dove si combatte furiosi, e dalla fine spaventosa di Derna, questa Mosul libica d’ottantamila abitanti che milleduecento jihadisti maliani, tunisini, yemeniti hanno preso senza sparare un colpo. Derna era la città dei poeti, dei mercanti, dei ministri del re. Religiosa, tanto che Gheddafi la evitava, ma insieme colta e raffinata. Oggi è il primo Califfato che i tagliateste siano riusciti a proclamare nel Mediterraneo. Non in Siria o in Iraq, ma davanti all’Italia: se ci sarà mai una marcia sulla Roma vaticana, come proclamano, è da qui che partirà.
I racconti della paura si raccolgono alla cafeteria Thuraya, fra macchine di bulli che sgommano e miliziani del generale Haftar di rientro dal fronte. C’erano otto suore italiane, a Derna, riparate a Bengasi credendo di stare più al sicuro.
C’era una bella chiesa nella medina e ai tempi di Gheddafi faceva da centro culturale: s’è piazzato l’iracheno coi suoi vice, un saudita e un egiziano, più sua eccellenza Mohammed Abdullah Abi al Baraa Al Azdi che comanda il nuovo Consiglio consultivo della gioventù islamica e infligge la più estrema delle sharie. Novanta frustate a chi si droga, piccolo sconto di pena a chi beve, un centro di disintossicazione gestito a catene e ceffoni. Ai primi di novembre, la decapitazione di tre giovani che postavano su Facebook notizie sgradite e d’un soldato di Haftar catturato («questo generale musulmano che ci combatte è peggio di Obama!…», urla un predicatore di Radio Barqa).
Dal nuovo califfato libico è scappato un ragazzo che dieci anni fa sparava sugli americani in Iraq: «A Derna comandano dei pazzi — dice ora nella sua nuova vita tripolina da tecnico informatico e pentito — non accettano altra visione che la loro. Chi non è con l’Isis, è un infedele». Se c’è una scritta sulla piazza centrale, «no ad Al Qaeda», è perché i qaedisti passano per moderati un po’ rimbambiti. Non piacciono neanche quelli di Ansar al Sharia: nel 2012 uccisero l’ambasciatore americano a Bengasi, ma sono considerati dei mollaccioni. Il tecnico veneziano Gianluca Salviato, per otto mesi ostaggio a Derna, ha raccontato che lo sorvegliavano ceceni e tunisini, gli facevano vedere i video della guerra in Siria, gli promettevano un’Italia islamizzata…
Il venerdì sera, i jihadisti convocano la gente in piazza a festeggiare il Califfato. «Distribuiscono volantini, suonano inni sacri, regalano dolci e giocattoli ai ragazzini, gli unici che accorrano», spiega M. H. La polizia islamica circola coi Land Cruiser bianchi e neri per controllare abbigliamenti e atteggiamenti: «Alle facoltà di legge e di belle arti hanno tirato su un muro per dividere studenti e studentesse». Il generale Haftar ha sigillato la città, giurano che non esce nessuno, ma non è vero: M. H. passa ogni settimana per stradine secondarie, «non è difficile».
Ogni tanto spuntano check-point volanti sulla strada da Beida, qualcuno viene sequestrato: moglie e bambini d’un deputato di Tobruk, fatta l’inversione a U, sono stati inseguiti per venti chilometri. «Sono pochi +fanno già un gran casino», ci dice il generale Abdel Razah Nouradin, capo di stato maggiore dell’esercito libico: «Per ora hanno solo qualche rpg del tempo di Gheddafi. Ma bisogna intervenire e spazzarli via, prima che ne arrivino altri».
C’è una sparatoria, il giorno che ce ne andiamo da Beida. Arriva un’ambulanza, trasporta un ferito eccellente. Si chiama Sufian Bin Qumu. Stava in Afghanistan, poi a Guantanamo. Ha lasciato Al Qaeda per l’Isis. Il Dipartimento Usa l’ha messo nella lista dei terroristi globali più ricercati. Viveva a Derna, ma nessuno lo sapeva.
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