Cronaca e storia dimostrano che i titolari del potere economico non rispettano le regole la cui osservanza è imposta agli altri cittadini, sentendosi vincolati in via primaria dalle regole del mercato e del profitto, pur se talvolta si rivelino incompatibili con quelle dallo Stato. Non è questa la sede per attingere ai notori e incontestati numeri sull’evasione fiscale, sullo sciopero degli investimenti in Italia a favore di quelli nei paradisi fiscali e degli inferni della quasi-schiavitù , sullo stravolgimento dell’ambiente, sulle produzioni nocive per dipendenti interni e abitanti limitrofi. Un dato innegabile è costituito dal modesto impegno governativo verso questi fenomeni trasgressivi, di immediato impatto sociale ed economico.
Al di là della questione morale, il problema è il reale governo della società, gestito dalle imprese di più alta dimensione attraverso piani di investimenti e/o disinvestimenti che non riguardano solo i loro azionisti, ma si risolvono nella pianificazione di tutta l’economia nazionale. Le scelte che i colossi privati fanno a vantaggio o a svantaggio di settori produttivi e di aree territoriali danno vita alla politica economica che coinvolge, senza controlli e senza vincoli, la vita e i consumi di tutti i cittadini, avendo la classe politica compattamente abrogato di fatto la disciplina costituzionale dei rapporti tra Stato ed economia. L’art. 41 , nella totale ignoranza e indifferenza dei multicolori governanti, stabilisce che l’iniziativa economica privata è libera , ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana . La legge determina i programmi e i controlli perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
All’inizio degli anni Sessanta, i leader della sinistra socialista, cattolica e laica (Riccardo Lombardi, Pasquale Saraceno, Ugo La Malfa, seguiti con interesse da Amendola), preso atto che la politica economica continuava ad esser gestita da coloro che ne avevano avuto la direzione, prima, durante e dopo il fascismo, elaborarono e proposero, una pianificazione democratica, cioè un piano di direzione cosciente delle scelte finanziarie e produttive, con obiettivi e modalità, funzionali non all’esigenza di realizzare il massimo profitto, ma «alla necessità di trasformare il processo di espansione, mantenuto a tassi elevati,in un processo di sviluppo equilibrato ed armonico», (Lombardi). L’aggettivo democratico, legato al sostantivo pianificazione indirizzava la sua carica polemica sull’anarchia dei grandi monopoli ed esprimeva il riconoscimento dell’ autonomo ruolo del sindacato(v. T. Nencioni, “Riccardo Lombardi nel socialismo italiano” 1947–1963, Esi).
L’avvio della politica della pianificazione fu giustamente legato alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, per esigenze tecniche (collegare, con un’azienda unificata, bacini idrici complementari per stagionalità degli approvvigionamenti e per diversità territoriale; estensione dell’energia al Mezzogiorno, penalizzato dal monopolio privato) e politiche(limitare il sistema di potere che si era ramificato in borsa, nei giornali, nei partiti, nel Parlamento). Il governatore della Banca d’Italia fu uno dei più duri oppositori alla nuova politica riformista, oggetto anche di irrisione, come ci ricorda Nencioni : «Oserei dire che la visione di Lombardi era leninista :il monopolio statale avrebbe dovuto scriminare le tariffe, settore per settore, come strumento di programmazione economica coercitivo. Lombardi sognava di avere in mano le levette dei contatori elettrici e chiuderle a quelli che non lo meritavano», (p. 216).
Al di là dell’ironia, la Confindustria e la destra democristiana organizzarono a queste riforme un’opposizione al di fuori di ogni regola costituzionale e penale e, grazie anche alla debolezza e miopia di Pietro Nenni, fecero naufragare, con il governo Moro del luglio 1964, ogni velleità innovativa nella selezione dei protagonisti della “stanza dei bottoni”.
Comunque la nazionalizzazione dell’energia elettrica è avvenuta con l’istituzione dell’Enel (legge del 1962) ed è interessante l’impegno dei governi del centro sinistra antileninista nella sua de-nazionalizzazione, (il governo Amato con decreto legge 11.7.1992, trasforma l’Enel in Spa; il governo D’Alema, con decreto legislativo 16.3.1999 — decreto Bersani — liberalizza il mercato elettrico). Attualmente, su uno dei mercati più liberalizzati d’Europa, operano circa 100 operatori, essendo rimasto azionista di riferimento il ministero dell’economia con circa il 31%.
Posto che i maggiori protagonisti della liberalizzazione dissennata dell’economia pubblica (v. Telecom Italia) esibiscono impudiche lacrime di coccodrillo e sostengono la nazionalizzazione della salma dell’Ilva, si può pacificamente affermare che il fallimento del riformismo economico (le famose ed invisibili riforme di struttura) è dipeso non solo dall’intolleranza degli imprenditori per riforme che non si risolvano in un ampliamento dei livelli di spesa pubblica, negli incentivi indiscriminati e incontrollati, nel perdono di fatto e di diritto per l’evasione fiscale e per l’esportazione dei capitali e, da ultimo, nell’ampliamento dell’anarchia nelle assunzioni e nei licenziamenti. Punto nodale è anche l’incapacità della sinistra governativa di mantener ferma la sua identità politica e di contrapporre ai comandi e ai piani della classe imprenditoriale un programmato intervento pubblico, che si inserisca nella linea di sviluppo del capitalismo, introducendovi elementi di modificazione capaci di spostare l’equilibrio di potere tra i ceti sociali.
Qui non c’è afflato giacobino, non c’è estremismo, non c’è leninismo: c’è il comando della Costituzione a osservare l’uguaglianza dei cittadini e a garantire «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,economica e sociale del Paese». Non viene alcuna prospettiva di rinnovazione da questo governo, il cui capo è stato insignito dal collega della Confindustria del titolo di garante e realizzatore dei sogni degli industriali. Chi lavora ben sa che questi sogni, una volta esauditi, possono trasformarsi per occupati e disoccupati in realtà molto amare.