by redazione | 12 Dicembre 2014 8:36
«Il voto popolare ha dato al partito del primo ministro una ampia maggioranza ma fin dall’inizio il nuovo governo si è mosso principalmente per aiutare i datori di lavori a fare quello che vogliono nelle loro imprese», «le misure del governo, che escludono dalle tutele un gran numero di lavoratori, peggioreranno il livello di vita della gente comune, aumenteranno la disuguaglianza e l’insicurezza, i più ricchi saranno avvantaggiati mentre per i più poveri sarà sempre più difficile arrivare a fine mese. Chiediamo al primo ministro di ritirare queste ingiuste e dannose riforme e aprire un autentico dialogo con il movimento sindacale indiano».
Anche se alcuni avranno pensato a dichiarazioni di sindacalisti italiani, stiamo invece parlando dell’India dove il 5 dicembre scorso milioni di lavoratori hanno partecipato allo sciopero generale indetto dal «Joint Action Committee» , una coalizione che riunisce tutte le centrali sindacali del paese, da quelle di sinistra a quelle di destra. Grandi manifestazioni si sono svolte a Delhi, Mumbai, Kolkata, Chennai, e nelle altre principali città della «più grande e popolosa democrazia del mondo».
Secondo i sindacati promotori, i lavoratori indiani hanno dato prova di di una forte unità di classe, dimostrandosi pronti a sfidare il modello economico neo-liberista del governo Modi, il cosiddetto Modinomics, da lui sperimentato come governatore del Gujarat, che prevede una dose massiccia di privatizzazioni e di deregolamentazione, più precarietà e meno protezione. I sindacati hanno presentato al governo una piattaforma in 10 punti fra cui: difesa della attuale legislazione sul lavoro, un salario minimo nazionale equivalente a 160 dollari al mese; copertura pensionistica e di sicurezza sociale per tutti i lavoratori; creazione diretta di occupazione e controllo dei prezzi.
Il 29 novembre in 52 città della Spagna complessivamente un milione di persone sono scese in piazza nella giornata di «mobilitazione per la Dignità e i Diritti» che ha chiuso la settimana di lotta convocata dalla «Cumbre Social», una piattaforma composta da oltre centocinquanta associazioni e movimenti della società civile, collettivi, organizzazioni sociali e sindacali fra cui le tre principali confederazioni spagnole CC.OO. UGT e USO.
Al centro della protesta il cambio delle politiche economiche e della riforma del lavoro del Governo Rajoy, imposte dalla troika alla Spagna come condizione per l’erogazione dei cosiddetti aiuti europei. Fra le principali rivendicazioni della mobilitazione: nuove politiche per l’occupazione e per la casa, reddito minimo, salari dignitosi, protezioni sociali per la disoccupazione, rilancio degli investimenti e dei servizi pubblici, difesa delle libertà sindacali e la cancellazione della «legge di Sicurezza Civica» che si è rivelata uno strumento di criminalizzazione delle lotte sociali e sindacali, mettendo sotto processo penale o amministrativo centinaia di sindacalisti e attivisti sociali.
Vale ricordare che le riforme economiche e del lavoro del governo di destra spagnolo sono state le più drastiche dopo quelle adottate in Grecia. Il 60 percento dei giovani spagnoli è oggi disoccupato, milioni di persone sono in condizioni di povertà o di esclusione sociale, e i salari, in particolare per i lavoratori precari, si sono ridotti fino al 20% percento rispetto al livello del 2008.
Lunedì 15 dicembre ci sarà anche in Belgio uno sciopero generale, proclamato dalle tre Centrali sindacali belghe (la socialista FGTB/ABVV, la cristiana ACVCSC/ACLVB la liberale ABVV/CGSLB). I sindacati belgi avevano già manifestato il 6 novembre scorso a Bruxelles dove erano scese in piazza oltre centomila persone, e dove c’erano stati anche scontri con alcuni gruppi di manifestanti.
L’ultimo sciopero generale in Belgio risale però a quasi tre anni fa nel gennaio 2012, quando l’obiettivo erano i tagli al bilancio del governo socialista Di Rupo. Anche in questo caso l’obiettivo della mobilitazione sono le misure prese dal nuovo governo, in questo caso di centro-destra, in applicazione della consueta ricetta neo liberista fatta di tagli alla spesa sociale, riduzione di salari e pensioni, attacco ai diritti sindacali e del lavoro. Una ricetta che ossessivamente viene riproposta uguale ovunque a dispetto del suo evidente fallimento nel dare risposta alla recessione economica in cui si trova ormai tutta l’Europa.
Le misure più contestate sono: l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni; l’abolizione del meccanismo di adeguamento dei salari all’inflazione; il blocco di due anni dei salari; l’aumento della pressione fiscale sui lavoratori, i tagli ai servizi pubblici e alla spesa sociale e le privatizzazioni. Ed è proprio il rifiuto della logica dei tagli alla spesa sociale, percepita come insopportabile e ingiusta, una delle motivazioni più forti di questa mobilitazione: «La gente ormai nasce con i tagli e muore con i tagli — dice il Segretario del sindacato socialista ABVV/FGTB Ruidi De Leeuw — il nostro dovere morale è organizzare la resistenza. Non c’è alternativa».
C’è una impressionante omogeneità in Europa nelle politiche con cui le istituzioni finanziarie e le classi dirigenti responsabili della crisi finanziaria globale ne scaricano il costo sui lavoratori e sui bilanci pubblici.
E poiché è difficile convincere lavoratori, giovani e pensionati che devono essere loro a pagare il costo della crisi, allora occorre inibire loro la capacità di reazione e di resistenza: indebolire il sindacato e limitare il diritto di sciopero diventano così un aspetto essenziale delle politiche neoliberiste, di attacco ai salari e alla spesa sociale. Nel resto del mondo pare che lo abbiano capito anche tutti i sindacati, e in Italia ?
* Responsabile Ufficio Internazionale Fiom-Cgil
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