La rivoluzione alla prova

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IL NOSTRO premier è un velocista. Dunque sarà lieto anche lui di poter verificare nel giro di poche settimane, diciamo alla fine del prossimo mese di gennaio, se davvero l’entrata in vigore del Jobs Act darà luogo all’annunciata “ rivoluzione copernicana ”.
OVVERO se riuscirà a invertire la micidiale tendenza alla precarizzazione che penalizza da anni il lavoro in Italia. Dal 1 gennaio 2015 le aziende che assumeranno nuovi dipendenti con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti godranno per 36 mesi di un esonero dagli sgravi contributivi fino a 8060 euro l’anno. Un incentivo che reca loro un risparmio notevole, circa il 30%, rispetto ai contratti a termine; al quale viene a sommarsi la facilitazione dei licenziamenti non solo individuali ma perfino collettivi ottenuta con l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti.
Di più, francamente, gli imprenditori non potevano chiedere: risparmiano molti soldi stipulando contratti a tempo indeterminato che oltretutto, per ragioni economiche, potranno disdettare con penalità sopportabili. In teoria, un meccanismo vantaggiosissimo (sempre che si trovino le coperture finanziarie necessarie alla decontribuzione: il nuovo presidente dell’Inps, Tito Boeri, segnala che lo stanziamento programmato è largamente inferiore al fabbisogno).
Sulla rivoluzione copernicana varata dal governo Renzi incombe però un brutale dato di realtà: oggi in Italia il 70% delle assunzioni vengono stipulate con contratti a termine, cioè precari; e solo il 15% sono a tempo indeterminato. Il resto sono contratti di apprendistato, interinali, di formazione lavoro. In pratica si tratta di sovvertire una consuetudine decennale che ha innalzato fino a quota 85% le assunzioni precarie. Basteranno gli incentivi del governo, e l’abolizione dell’articolo 18, per convincere i datori di lavoro a rinunciare alla comodità del lavoro a termine? Saranno disposti, gli imprenditori, a correre il rischio di stabilizzare i nuovi dipendenti, nonostante la congiuntura sfavorevole, pur di risparmiare sui contributi previdenziali? Lo sapremo molto presto. Gli uffici personale delle aziende stanno già facendo i loro calcoli e, se decideranno di ricorrere al nuovo contratto a tutele crescenti, per goderne i benefici trienna- li gli converrà invertire la tendenza al più presto, fin dalla settimana prossima. Dunque, da gennaio meno contratti a termine e più contratti stabili.
Come è noto, la Cgil e la Uil non ci credono. Si sono battute fino all’ultimo contro il Jobs Act perché escludono che la deregulation dei contratti a tempo indeterminato e la facilitazione dei licenziamenti possa arrestare il fenomeno della precarizzazione. Camusso e Barbagallo prevedono, al contrario, che in un ciclo economico recessivo su cui incombono numerose crisi aziendali l’effetto sarà di ulteriore perdita di posti di lavoro.
Gennaio sarà il momento della verità. La frattura che si è prodotta fra il governo a guida Pd e il più grande sindacato italiano, dalla fase dello scontro politico passerà alla verifica sostanziale delle dinamiche sociali. Renzi, e con lui l’Italia intera, potrà cantar vittoria se quel 15% di assunzioni a tempo indeterminato conoscerà un incremento significativo a scapito dei contratti a termine. Altrimenti? Altrimenti il Jobs Act passerà alla storia come l’ultimo argine travolto in un Paese che non riesce più a garantire una regolazione collettiva del diritto al lavoro. Un Paese spaccato, nel quale i nuovi assunti saranno soggetti, per legge, a trattamenti meno garantiti rispetto a chi mantiene le tutele precedenti.
Comprendo che per il Pd e il suo segretario fosse difficile riconoscere che il Jobs Act è un arretramento del diritto del lavoro, reso forse inevitabile dalle circostanze. Ma oggi diviene evidente l’elevata dose di azzardo che caratterizza la nuova legge: una volta entrata in vigore, essa implica un affidamento totale nelle prossime, imminenti scelte dei datori di lavoro. Se da gennaio non partiranno le assunzioni a tempo indeterminato, il governo verrà accusato di subalternità rispetto ai desiderata degli imprenditori (e della tecnocrazia europea). Da una parte troverà conferma la tesi secondo cui rinunciare ai contratti stabili e all’articolo 18 non frena, semmai alimenta la precarizzazione. Dall’altra, si rafforzerà la teoria del male minore, secondo cui occorre sopportare un’ulteriore decurtazione dei salari pur di evitare la chiusura delle aziende.
Nel passaggio cruciale che stiamo vivendo, non ha più alcun senso la contrapposizione fra ottimisti e gufi. Bisognerà contare i contratti registrati, e poi trarne tutti insieme le conseguenze.


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