KAROND (BHOPAL). SONO passati trent’anni, ma Kapura Bai non ha lasciato passare un giorno senza pregare Dio: lo implora di darle la morte, come a suo marito. Kapura l’ho incontrata più volte qui, nel “villaggio delle vedove di Bhopal”, così lo chiamano tutti. Ma il suo nome vero è Karond, e si trova a due passi dalla fabbrica americana di pesticidi della Union Carbide dove cinque minuti dopo la mezzanotte del 3 dicembre 1984 l’esplosione di una caldaia di gas micidiali sparse la morte su un raggio di decine di chilometri: insieme al marito di Kapura, persero la vita quasi 30 mila persone. Diecimila morirono avvelenate subito dopo la fuoriuscita dei vapori tossici: oltre 40 tonnellate, si è calcolato. Gli altri furono decimati in una lenta e straziante agonia che per molti dura ancora oggi, ultime vittime di quello che è ancora considerato il più grave incidente industriale della storia umana.
Per raggiungere il villaggio dove le vedove vivono in più o meno metà dei 2490 minuscoli alloggi costruiti appositamente per loro, attraversiamo sentieri resi fangosi dall’acqua dei monsoni che ha portato in superficie anche i veleni chimici depositati qui sotto da tre decenni. Questi monolocali sono cubi striminziti, umidi e impregnati dell’odore acre di decomposizione che aleggia tutto attorno. Nessuno ha rimosso la fonte delle mefitiche esalazioni che da quella fredda notte d’inverno hanno cambiato per sempre la vita delle donne di Karond, nonché di un altro mezzo milione di persone: tanti sono quelli che da allora vivono con organi interni cronicamente infiammati, ferite purulente, il respiro corto e terapie che quasi sempre devono pagarsi da soli. Questo senza contare centinaia di bambini con malformazioni ereditate dal nutrimento delle madri contaminate.
Oggi la fabbrica abbandonata è un mostro color grigio e ruggine circondato di guardie e filo spinato. Dopo il disastro Union Carbide dichiarò fallimento, l’impianto venne ceduto a Dow Chemical, che a sua volta non ha mai voluto pagare i danni né le compensazioni alle vittime. Parte dei sopravvissuti ha ricevuto miseri 400 dollari, ma ad altri — migliaia di persone, dicono le associazioni umanitarie locali — non è toccato niente. Nessuno ha ritenuto di farne un museo alla memoria, nessuno ha mai avviato né finanziato la pulizia delle sostanze chimiche che avevano già impregnato anni prima del disastro le falde acquifere in un’area ancora oggi densamente popolata, così come lo era allora.
Nel villaggio quello che si sente di più è la solitudine di queste donne, che da un giorno all’altro si sono ritrovate con la famiglia sterminata e che hanno dovuto ricominciare una vita in piccole casecella dalle mura screpolate, circondate dagli acquitrini o da campi secchi d’inverno, da oceani di immondizia e da sostanze grigie e giallastre che danno vertigini e nausee a passarci vicino. Mewa Bai racconta che prima di quel 3 dicembre viveva nella zona elegante di Chhola. Suo marito lavorava come falegname in un negozio di mobili e la vita scorreva placida con figli e nipoti, finché «non è arrivata la maledizione». Poiché crede in Dio, Mewa pensa come tutti che la colpa sia solo degli uomini, e come tutti ha in testa un nome, quello di Warren Anderson, il capo della Union Carbide. Per più di 29 anni, fino alla sua morte nel settembre scorso, ha vissuto in un’elegante villa negli Usa senza mai essere portato in giudizio, nonostante le prove della sua responsabilità diretta e le richieste di estradizioni.
Kapura, che oggi ha 69 anni, da molto tempo ha smesso di chiedere giustizia. Dice che lo Stato le passa una pensione di 250-300 rupie al mese, meno di 10 euro. «Non bastano a sopravvivere», racconta sul marciapiede che sta davanti a una delle decadenti palazzine a quattro piani che ospitano le casette- alveare circondate delle fogne a cielo aperto. C’è poi Amina Bano, che soffre di pesanti problemi respiratori: «Ma di rado qualcuno va a fare la spesa o a prendere l’acqua per me. Tutte le strade qui attorno sono in condizioni disastrose — dice mostrando il vicolo allagato — e nessuno le ripara. Il governo dello Stato del Madhya Pradesh ha abbandonato questo posto subito dopo averlo costruito, lasciando fogne e condutture senza nessuna manutenzione, così come tutto il resto».
Il villaggio è lo specchio del lento e progressivo disinteresse delle istituzioni. L’esplosione avvenne a causa dei mancati controlli sulla sicurezza, ridotti o aboliti per risparmiare denaro nonostante la micidiale miscela con la quale si preparava l’isocianato di metile usato nella fabbricazione del pesticida “Sevin”. Ma altre sostanze letali — tra le 4,000 e le 12,000 tonnellate di composti organici clorurati, tetracloruro di carbonio, benzeni e cloroformio, oltre ai metalli pesanti — furono interrate per decine di ettari attorno. «Siamo passati dal male al peggio», spiega una delle vedove più giovani, che tira avanti arrotolando le sigarette indiane chiamate beedi. Altre lavorano in sartorie o piccole aziende artigianali messe su da Ong e imprenditori caritatevoli che colgono l’occasione per portare avanti business redditizi. In occasione del trentesimo anniversario del disastro, cinque organizzazioni dei sopravvissuti hanno chiesto ufficialmente a Union Carbide e a Dow Chemical di far seguito alla sentenza della Corte di Bhopal che nel ‘99 ha imposto un risarcimento supplementare per la ripulitura dei siti contaminati. Altre 46 associazioni provenienti da diversi Stati indiani sono arrivate a Bhopal per dare una mano nel settore sanitario, dell’energia, dell’istruzione, dell’agricoltura, per la mera sopravvivenza di chi non può più lavorare a causa delle malattie. Sindacati e organizzazioni umanitarie sono giunti da Scozia, Hong Kong, il Giappone. Ma nel loro villaggio di tuguri, le vedove di Bhopal sono troppo deboli per credere al risveglio delle coscienze «Passata anche questa ricorrenza — sussurra Kapura — scenderà di nuovo il silenzio». Prakash Hatvalne scrive per il “ Times of India”. Trent’anni fa raccontò per il suo giornale il disastro di Bhopal