Renzi regala tutele calanti

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Il pacco di natale lo stanno infioc­chet­tando diret­ta­mente a palazzo Chigi. Que­sta mat­tina sarà il con­si­glio dei mini­stri a scar­tarlo, seb­bene il con­te­nuto dif­fi­cil­mente sarà noto subito ai lavo­ra­tori ita­liani in tutte le sue parti: come al solito ci si limi­terà agli annunci. Renzi ven­derà il con­tratto a tutele cre­scenti come un modo per dare lavoro ai gio­vani e com­bat­tere la precarietà.

In realtà sosti­tui­sce in toto il con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato: c’è già la fila di aziende pronte a licen­ziare i pro­pri lavo­ra­tori e a rias­su­merli col nuovo con­tratto. Il primo decreto delega del Jobs act san­cirà comun­que la can­cel­la­zione dell’articolo 18 dalla legi­sla­zione italiana.

Dopo 44 anni di vita, il rein­te­gro in caso di licen­zia­mento senza giu­sta causa rimarrà solo per i licen­zia­menti di tipo discri­mi­na­to­rio, tute­lati dalla Costi­tu­zione, che per for­tuna non era oggetto della delega in bianco votata dal par­la­mento al governo.

Per il resto la libertà di licen­zia­mento pro­pa­gan­data dai con­si­glieri eco­no­mici di Mat­teo Renzi — il boc­co­niano Tom­maso Nan­ni­cini, Yoram Gut­geld e il respon­sa­bile eco­no­mia Pd ed ex civa­tiano Filippo Tad­dei — sarà sostan­zial­mente totale. Con il mini­stro del lavoro Giu­liano Poletti nel ruolo di media­tore rispetto alle richie­ste spon­so­riz­zate da Mau­ri­zio Sac­coni e Pie­tro Ichino.

Anche l’unica pic­cola vit­to­ria della mino­ranza Pd — il ripri­stino del rein­te­gro in alcuni casi di licen­zia­menti disci­pli­nari — sarà supe­rato dalla cosid­detta opting out: la pos­si­bi­lità per l’azienda di sce­gliere di pagare un inden­nizzo al posto del rein­te­gro. Con il con­ten­tino per i lavo­ra­tori di rice­vere la cifra a tas­sa­zione agevolata.

La quan­ti­fi­ca­zione degli inden­nizzi è già stata fis­sata e riduce di molto i livelli pre­vi­sti dalla riforma For­nero: per le aziende fino a 15 dipen­denti si pre­vede una mezza men­si­lità per ogni anno di anzia­nità, per quelle da 16 a 200 dipen­denti si sali­rebbe a 1,5 men­si­lità per anno, sopra i 200 dipen­denti si andrebbe a due men­si­lità per anno. Il tetto mas­simo per i dipen­denti con più anzia­nità sarebbe inva­riato a 24 men­si­lità. Per ovviare al rischio che ai datori di lavoro con­venga assu­mere e poi licen­ziare dopo un anno, sfrut­tando gli incen­tivi sui nuovi assunti pre­vi­sti in legge di sta­bi­lità, il governo sem­bra orien­tato ad aumen­tare a 3 men­si­lità l’indennizzo per il licen­zia­mento dopo un solo anno.

Ma la novità di gior­nata peg­giore per i lavo­ra­tori ita­liani riguarda la ven­ti­lata pos­si­bi­lità di allar­gare tutta la par­tita in modo spro­po­si­tato: la nuova nor­ma­tiva sul con­tratto a tutele cre­scenti riguar­de­rebbe infatti non solo i licen­zia­menti indi­vi­duali ma anche i licen­zia­menti col­let­tivi. Andando quindi ad inter­ve­nire su tutte le gestioni delle crisi azien­dali rego­late dalla legge 223 del 1991, ora usata in caso di esu­beri. In que­sto modo c’è il rischio reale che le imprese scel­gano chi licen­ziare sca­val­cando i cri­teri che oggi impo­gono un ten­ta­tivo di con­ci­lia­zione di 75 giorni con i sin­da­cati e — soprat­tutto — cri­teri pre­cisi per l’individuazione del per­so­nale in esu­bero, tute­lando chi ha cari­chi fami­liari. Insomma, un colpo di mano che per­met­te­rebbe agli impren­di­tori di disfarsi come e quando vogliono di chi scio­pera, di chi con­te­sta, di chi non gli aggrada.

In più nella bozza di palazzo Chigi è pre­vi­sta una norma che con­sen­tirà alle aziende ora sotto i 15 dipen­denti che aumen­tino la loro forza lavoro di appli­care a tutti i loro lavo­ra­tori il nuovo con­tratto a tutele  cre­scenti, eli­mi­nando quindi per tutti la tutela dell’articolo 18 che deri­vava dall’aver appunto supe­rato quota 15 addetti. Ver­rebbe così supe­rato l’ostacolo sem­pre strom­baz­zato dalla destra libe­rale: «In Ita­lia le pic­cole aziende non assu­mono per­ché sopra i 15 dipen­denti c’è l’articolo 18».

L’ultima beffa per i lavo­ra­tori — ieri data per meno pro­ba­bile — riguarda la pos­si­bi­lità di licen­zia­mento per scarso ren­di­mento. Anche in que­sto caso a sta­bi­lire se il lavo­ra­tore sia poco pro­dut­tivo sarebbe esclu­si­va­mente l’imprenditore, men­tre al lavo­ra­tore non rimar­rebbe che dimo­strare di essere stato licen­ziato per discriminazione.

Pos­si­bile poi che il con­si­glio dei mini­stri vari il secondo decreto delega, quello sugli ammor­tiz­za­tori sociali. L’Aspi della For­nero dovrebbe essere esteso anche ai co?.co?.pro — con­tratto che Renzi ha pro­messo di can­cel­lare — allun­gan­done la coper­tura. Ma senza risorse pare una mano­vra assai com­pli­cata per­fino uti­liz­zando i fondi — 500 milioni — per la cassa in deroga: anche que­sti lavo­ra­tori dovreb­bero esserne coperti e quindi non si capi­sce come aumenterebbero.

Una situa­zione che porta Cesare Damiano — pre­si­dente della com­mis­sione Lavoro, una delle due che deve dare un parere vin­co­lante su ogni decreto entro 30 giorni, per poi far tor­nare il testo in con­si­glio dei mini­stri — a fare la voce grossa: «Opting out, allar­ga­mento delle norme ai licen­zia­menti col­let­tivi e licen­zia­mento per scarso ren­di­mento sono prov­ve­di­menti gravi che vanno al di fuori del testo della delega. Vanno tutti e tre eli­mi­nati. Diver­sa­mente avrebbe ragione il mini­stro Alfano: il Jobs act sarebbe scritto con la mano destra».



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