ROMA . Il 22 dicembre dovrebbero essere approvati dal Consiglio dei ministri i primi due decreti delegati per l’attuazione del Jobs Act. Riguarderanno il contratto a tutele crescenti, con la nuova disciplina dei licenziamenti individuali e il superamento dell’attuale articolo 18, e l’estensione dell’Aspi (l’assicurazione sociale per l’impiego) ai lavoratori precari. Non è escluso che all’ultimo momento il governo decida di approvare anche le prime norme attuative sul riordino delle forme contrattuali atipiche. Per la prossima settimana il governo è intenzionato a convocare le parti sociali per un confronto sulle bozze dei decreti. Il via libera definitivo dalle competenti Commissioni parlamentari (il cui parere non è comunque vincolante) arriverà con la ripresa dei lavori dopo la pausa natalizia. Entro gennaio questa prima parte della riforma, quella destinata a segnare maggiormente la discontinuità che serve al governo Renzi per dimostrare a Bruxelles la propria affidabilità sulle riforme, dovrebbe così entrarein vigore.
Ma i nodi da sciogliere ancora non sono affatto pochi e le soluzioni non dipendono più dai tecnici, bensì dalla politica, dai partiti della maggioranza (Pd, Ncd e Scelta civica) e in qualche misura pure dal rapporto con le organizzazioni delle imprese e i sindacati, dopo lo sciopero generale di ieri di Cgil e Uil.
C’è intanto da definire i casi per quali il licenziamento individuale ingiustificato per ragioni disciplinari non determinerà il reintegro nel posto di lavoro ma solo un’indennità monetaria. Due sono rimaste le opzioni: da una parte l’accusa al lavoratore, rivelatasi poi falsa, di aver commesso un reato; dall’altra (fattispecie più ampia) l’accusa di aver commesso un fatto materiale poi rivelatosi inesistente. Al di fuori della tipologia che poi prevarrà, sarà previsto esclusivamente il risarcimento monetario crescente (da qui la formula del “contratto a tutele crescenti”) in base all’anzianità di servizio del lavoratore. È stato sostanzialmente ormai fissato a 24 mesi di stipendio il limite massimo dell’indennizzo mentre è ancora aperta la discussione sull’ammontare del risarcimento in relazione ai mesi di lavoro: il range va da un minimo di 1,5 mesi di indennizzo per ogni anno di lavoro a un massimo di due mesi. E da questa asticella dipenderà molto la convenienza per il datore di lavoro di ricorrere al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti oppure al contratto a tempo determinato che il cosiddetto “decreto Poletti” ha largamente liberalizzato.
Partita aperta anche su un altro fronte: quello di inserire tra i licenziamenti economici (quindi tutelati solo con l’indennizzo) quelli per “scarso rendimento” del lavoratore. Per questa soluzione spingerebbero il Nuovo centro destra con Maurizio Sacconi e Scelta civica con Pietro Ichino, mentre il Pd sarebbe sostanzialmente contrario. La decisione sarà dunque politica.
La riforma prevede l’introduzione nel nostro ordinamento di una sorta di “conciliazione veloce”, incentivata fiscalmente. In questo caso le parti (il datore di lavoro e il dipendente) entro un tempo molto breve ancora da stabilire (da pochi giorni a due mesi massimo) rinunceranno al ricorso al giudice, accettando l’indennizzo che sarà stabilito, in base all’anzianità, dalla legge. Questo meccanismo permetterà di ottenere che il risarcimento sia totalmente esentasse, operazione sulla quale tuttavia non è ancora arrivato il via libera da parte della Ragioneria generale dello Stato. Pure in questo caso il tetto arriva a 24 mesi di retribuzione che sarà però netta. La conciliazione veloce, dall’altra parte, eviterà alle imprese l’incertezza della via giudiziaria.
Per le piccole aziende, quelle con meno di 15 dipendenti, infine, dovrebbe restare la normativa attuale.