Questo non è un ribasso, è una rotta disordinata, un tracollo senza rete. La brutalità dell’evento è già di per sé un dato che turba i mercati perché tutti gli scenari ne sono sconvolti. Ancora più grave è il ribaltamento nell’interpretazione di questo sisma. Ancora poche settimane fa prevaleva una lettura di questi eventi dal lato dell’offerta: l’energia costa sempre meno perché se ne produce sempre di più. Questo è positivo, per chi la consuma. Ma più di recente è prevalsa la lettura dal lato della domanda: l’energia costa sempre meno perché se ne consuma sempre meno. Questo non è affatto positivo, è un segnale di peggioramento dell’economia globale. All’inguaribile stagnazione dell’eurozona, nell’ultima parte del 2014 si sono aggiunti altri due freni: la Cina rallenta, il Giappone è ricaduto nella recessione. Di qui un effetto domino. Sono risucchiate nella crisi tutte le nazioni emergenti che da vent’anni erano state proiettate verso il boom dalla domanda cinese di materie prime. Ecco perché il contro-shock fa tanta paura: l’energia a buon mercato è un ottima notizia per una parte del mondo, ma le cause che ci stanno dietro non lo sono affatto.
Dal lato dell’offerta, cioè della produzione, stanno avvenendo alla velocità della luce dei cambiamenti secolari. Li restituisce in modo efficace un esempio fatto dal Wall Street Journal . Dal 2008 a oggi, sono letteralmente scomparse dai mari 100 super-petroliere al mese: sono quelle che trasportavano 90 milioni di barili mensili in provenienza dai paesi dell’Opec per il mercato Usa. Una sola nazione come la Nigeria ancora nel 2010 consegnava agli Stati Uniti un milione di barili al giorno: oggi zero, non c’è più una sola goccia di petrolio nigeriano in arrivo qui. Questo perché nel frattempo è avvenuta una rivoluzione energetica che ha il suo epicentro proprio sul territorio americano. È una rivoluzione fatta di nuove tecnologie che hanno travolto antichi equilibri, trasformando tutti i parametri economici dell’energia. Certo vi hanno contribuito anche le fonti rinnovabili, che continuano a progredire e a costare sempre meno. Ma assai più potente è stato l’impatto delle tecnologie di esplorazione e di estrazione, con l’avvento del fracking (getti d’acqua e solventi che separano petrolio e gas da rocce e sabbie) nonché delle trivellazioni orizzontali.
Il settore petrolifero si è trasformato da un’industria pesante a un’industria “leggera” nel senso che gli impianti di trivellazione inseguono le nanotecnologie nella corsa alla miniaturizzazione, all’automazione. Il petrolio e il gas del Texas e del North Dakota hanno sostituito in pochi anni quello che l’America comprava da Brasile, Nigeria, Algeria e Angola. Gli Usa hanno superato la Russia nella produzione di gas, si avvicina il sorpasso sull’Arabia Saudita nell’estrazione di petrolio. Nel giugno di quest’anno, rompendo con una tra- dizione autarchica durata 40 anni (che ebbe le sue origini nello shock petrolifero del 1973), l’Amministrazione Obama ha concesso le prime licenze di esportazione di petrolio americano. È un mondo alla rovescia, e quasi nessuno era preparato al suo avvento così rapido: il più grande consumatore mondiale di energia, gli Stati Uniti, diventa il più temibile concorrente per l’Opec e per la Russia. Questo a sua volta provoca una disordinata corsa verso altri mercati di sbocco. Dalla Nigeria alla Colombia, chi ha perduto il cliente-America deve affrettarsi a vendere il proprio petrolio al cliente-Cina: ma a questo punto è il cliente a decidere i prezzi, ed ecco il capitombolo nelle quotazioni.
Fin qui, questa è la storia dal lato dell’offerta. E sarebbe una storia solo positiva. Lo è infatti, per come viene percepita dal consumatore americano. Qui negli Stati Uniti, un po’ per il dollaro tornato forte e un po’ per la concorrenza tra i distributori, il calo del petrolio si è trasmesso immediatamente all’utente finale. La famiglia media americana ogni volta che va a fare il pieno si sente un po’ più ricca. Ai prezzi attuali il guadagno è fra i 380 e i 750 dollari all’anno. Quegli aumenti di stipendio che i datori di lavoro Usa concedono col contagocce e con avarizia, stanno arrivando con generosità dalla bolletta energetica sempre più leggera. L’effetto è visibile: la fiducia dei consumatori americani è risalita ai massimi dal 2007. La crescita Usa accelera, più 321 mila assunzioni nette solo a novembre. Ma anche questo vigore americano è reso più fragile da quel che accade altrove: può l’economia mondiale girare come un motore con un cilindro solo? La paura di Wall Street si spiega così: la solitudine della locomotiva Usa non è rassicurante.
Per tutto il resto del mondo, infatti, la storia è ben diversa. L’altra metà del bicchiere, quella vuota, è la domanda. Cala nell’eurozona che sprofonda nelle sabbie mobili della depressione, stremata dal quinto anno di una rovinosa austerity e di una politica monetaria troppo timida. Cala la domanda in Giappone, che ora si affida alla rielezione del premier Abe sperando che s’inventi un elettroshock per rianimare il malato in coma. Cala infine la domanda in Cina, la cui produzione industriale è rallentata come non accadeva dall’inizio degli anni Novanta. Con la frenata della Cina si sta chiudendo un ciclo ventennale di boom di tutte le materie prime: non solo energia ma anche minerali, metalli, legname, derrate agricole. Tutto l’emisfero Sud ne risente, dall’Australia al Brasile passando per l’Africa intera. Spunta il pericolo di una nuova crisi finanziaria dei paesi emergenti sul modello di quelle degli anni Novanta: una possibile catena di default scatenata dai debiti privati che furono contratti in dollari, e che ora diventano sempre più cari da rimborsare.