Pochi, pesti e indispensabili

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Un eser­cito in com­pleta tenuta da guerra dispie­gato per cir­con­dare una mani­fe­sta­zione che a fatica rag­giun­geva i numeri di una gita sco­la­stica d’istituto. Dotata di un arse­nale com­po­sto da ombrelli fumo­geni, qual­che uovo e un paio di petardi di mode­sto cali­bro. Par­liamo del cor­teo, si fa per dire, che avrebbe dovuto cir­con­dare il palazzo nel quale un numero di sena­tori lie­ve­mente infe­riore a quello dei mani­fe­stanti (ma meno rap­pre­sen­ta­tivi di que­sti ultimi, in quanto impo­sti dalle segre­te­rie dei par­titi) si accin­geva a votare il Jobs Act, la ban­diera della «com­pe­ti­ti­vità» renziana.

A volte, sor­pren­den­te­mente, i suc­cessi si otten­gono per vie para­dos­sali. E così l’esigua pat­tu­glia di pre­cari e stu­denti scesa in piazza a Roma sotto il segno del social strike ha deter­mi­nato, gra­zie alla para­noia che sem­bra dila­gare in que­sture, comandi, pre­fet­ture e mini­stero degli interni, un blocco dav­vero impres­sio­nante della città durato diverse ore. C’è da chie­dersi a cosa ser­vano i costosi eli­cot­teri delle forze dell’ordine e se i loro equi­paggi com­pren­dano qual­cuno capace di fare di conto. La stu­pi­dità della con­tro­parte è, come sap­piamo, un’arma for­mi­da­bile che con­sente di otte­nere il mas­simo risul­tato con il minimo sforzo. Ma non si tratta solo, né soprat­tutto, del risiko demen­ziale che si è gio­cato in que­stura. Che cosa si aspet­ta­vano i coman­danti di piazza e di governo? Migliaia di mani­fe­stanti infe­ro­citi e pronti a tutto di fronte a una legge che nell’indebolire il lavoro dipen­dente non apre alcuna pro­spet­tiva per quello auto­nomo e pre­ca­rio già ridotto allo stremo? Può darsi che il governo Renzi, non ancora defi­ni­ti­va­mente acce­cato dalla sua stessa pro­pa­ganda, sia riu­scito a per­ce­pire il fatto che la «gio­ventù bru­ciata» dalle poli­ti­che libe­ri­ste e dall’economia poli­tica della pro­messa, sapendo leg­gere gli indi­ca­tori eco­no­mici meglio (ossia più one­sta­mente) dei con­su­lenti del Pd, sia poco dispo­sta a farsi infi­noc­chiare una volta di più. Quell’esercito minac­cioso che pre­si­diava le vie della capi­tale, e che non ha man­cato di togliersi la sod­di­sfa­zione, del tutto gra­tuita, di pic­chiare e fer­mare ragazzi e ragazze pale­se­mente inermi, rivela niti­da­mente una verità, e cioè quanto esi­guo sia il con­senso sul quale la mag­gio­ranza della mino­ranza (quella degli ita­liani che votano) ritiene di poter con­tare. Non c’è che dire, una imma­gine dav­vero edi­fi­cante della «gover­na­bi­lità» nell’epoca in cui l’affluenza alle urne è diven­tato anche uffi­cial­mente un «fatto secon­da­rio» e l’ordine pub­blico si avvia a diven­tare quello «primario».

Di fronte alle più impo­nenti mani­fe­sta­zioni di pro­te­sta i governi, e que­sto non fa ecce­zione, sono soliti argo­men­tare cap­zio­sa­mente che se molti sono scesi in piazza assai di più sono rima­sti a casa a dimo­strare, se non il con­senso, almeno un atteg­gia­mento di non osti­lità verso le loro poli­ti­che. Le truppe dispie­gate a difesa del Palazzo, in attesa delle masse che non si sono pre­sen­tate all’appello, sem­brano invece testi­mo­niare, que­sta volta, con una stu­diata messa in scena di inti­mi­da­zione pre­ven­tiva, che gli assenti non pos­sono essere anno­ve­rati tra gli indif­fe­renti o i com­plici. Ieri per le vie della capi­tale si aggi­rava uno spet­tro, quello di un grande pezzo di società escluso da red­diti e diritti, giunto da tempo ai limiti della sop­por­ta­zione. Non c’è che da rin­gra­ziare i quat­tro gatti finiti in una trap­pola per topi che lo hanno gene­ro­sa­mente evocato.



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