Per un vero sciopero generale
Lo sciopero generale gode di uno statuto del tutto particolare. Su di esso convergono aspettative e valori simbolici, perfino mitologie, che eccedono palesemente i consueti confini di una vertenza sindacale. È nella sua stessa natura il compito di proporsi obiettivi che riguardino tutti, o almeno tutti i lavoratori. Per questo esso rappresenta il punto in cui la dimensione sindacale e quella politica rivelano la massima contiguità. A maggior ragione in un tempo in cui la distinzione tra politica ed economia appare sempre più priva di fondamento.
Ma proprio per queste sue caratteristiche lo sciopero generale deve fare i conti con le trasformazioni subite, nel tempo, dalla società e dalle forme del lavoro. Quei tutti si presentano oggi assai più disomogenei e articolati di quanto non fossero una trentina di anni fa. In larga parte il loro contributo alla «produzione di società» non è neanche riconosciuto come attività lavorativa.
Molti, disoccupati, precari, autonomi non dispongono nemmeno di un lavoro che possa essere sospeso, eppure rappresentano un elemento decisivo di quella dimensione «generale» alla quale lo sciopero dovrebbe rivolgersi.
Agire su questo piano significa uscire (senza beninteso trascurarla) dalla sola condizione del lavoro dipendente nonché dall’illusione che un giorno tutti possano rientrarvi secondo la mitologia della «piena occupazione». Queste caratteristiche spiegano perché sia tanto difficoltoso proclamare uno sciopero generale e, ancor più, garantirne il successo e conseguirne gli obiettivi. Includere gli esclusi da tutele e diritti nella sua sfera di azione.
L’ Italia è un paese spiccatamente corporativo con una tenace tradizione plurisecolare. In fondo il fascismo aveva visto giusto nello scommettere su questa eredità storica. Non sono poi molti i passaggi della storia italiana in cui la gabbia corporativa è stata decisamente scardinata: le camere del lavoro nell’ultimo decennio dell’Ottocento, la resistenza antifascista, appunto, la stagione conflittuale a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Tutte fonti di ispirazione fortemente appannate o del tutto travisate nel loro significato e nel loro insegnamento.
La «casta», con la sua tonalità sacrale ed eugenetica, è una definizione decisamente fuorviante seppure insistentemente applicata al nostro ceto politico, il quale non è in realtà altro che una corporazione non diversa (con buona pace di Max Weber) da quella dei notai, dei farmacisti, dei tassisti o dei giornalisti. Una corporazione impegnata nella conservazione di se stessa, della propria organizzazione del lavoro e delle regole di accesso al «mestiere». Soltanto un po’ più potente delle altre corporazioni, ma ispirata da una logica analoga.
A questo si ritorna, dopo l’esecrato tentativo berlusconiano di sostituire alla forma corporativa quella della compagnia di ventura e dell’esercito mercenario.
L’antica tradizione dei mestieri e della loro autodifesa sopravvive anche nell’organizzazione sindacale «per categorie». Se è vero che esiste una «confederazione generale» che le riunisce tutte per rappresentare l’interesse dell’insieme dei lavoratori, è anche vero che nella definizione dei confini di questo interesse, dei suoi organi di governo e delle sue forme di azione pesano i rapporti di forze, numerici e politici, tra le diverse «categorie». Senza contare le prerogative proprie del «mestiere di sindacalista». Il sistema fu destabilizzato alla fine degli anni Sessanta e nei primi Settanta dall’irruzione dell’«operaio massa», e dalla conseguente «socializzazione» della condizione operaia, ma si è poi riorganizzato nel corso di una lunga stagione di concertazione e di arretramento. La vicenda è nota. Nel frattempo si consumava un gigantesco esodo verso il precariato e verso condizioni di vita e di attività non più certificabili come «lavoro», verso l’immiserimento e la frammentazione delle fonti di reddito cui si aggiungeva il progressivo smantellamento del welfare.
È proprio questo processo a creare per la prima volta le condizioni per una soluzione di continuità con la tradizione corporativa che ci trasciniamo dietro da secoli. Attività fondate sull’intermittenza, sull’incertezza, sull’occasione, sulla continua riconversione del proprio agire, spesso considerate una semplice fase di transito tra una condizione e un’altra, si collocano agli antipodi di ogni prospettiva corporativa. Lo stesso mondo relazionale del lavoratore precario, autonomo o sotto contratto a termine, non si lascia racchiudere entro uno specifico ambiente professionale. A costituirlo non sono le relazioni con il simile, ma con il diverso. Il precario non ha «colleghi» più solidi di un occasionale compagno di strada, ma una infinità di soggetti ne condividono la condizione di sfruttamento e di ricatto. I termini «generici» della sua vita attiva gli conferiscono, appunto, un carattere «generale» che non si lascia organizzare in nessun sistema di «categorie». Seppure dei «precari» stessi si sia soliti ragionare come di una specifica «categoria» da affiancare a quelle del lavoro dipendente nelle quali finirà coll’essere riassorbita e addomesticata. Ma proprio perché la condizione precaria resta indefinita, irriducibile al «particolare», i suoi interessi si sviluppano piuttosto in una direzione necessariamente universalistica. Anche se, converrà sottolinearlo, nell’ambito del lavoro precario non mancano soggetti desiderosi di essere riconosciuti (e premiati) per la propria specificità professionale. Nella qual cosa non vi sarebbe nulla di male, se non nel prendere corporativamente le distanze da quell’interesse di tutti, che costituirebbe il principale elemento di forza del lavoro autonomo e intermittente.
Questo fenomeno mette però pienamente in luce un problema. Sfuggire a una forma di organizzazione corporativa non significa ancora averne individuata una diversa. Se le corporazioni hanno sviluppato al loro interno solidarietà e coesione, nel mondo del lavoro «generico e generale» regna la «competitività», la concorrenza. Sfruttare la competizione tra i singoli contro l’arroccamento corporativo, ma anche contro la legittima autodifesa del lavoro dipendente, è precisamente la strategia perseguita dalla cosiddetta riforma del mercato del lavoro. Contrapporre, cioè, un particolarismo coeso a un universalismo disgregato, il solidarismo del lavoro dipendente alla competitività di quello autonomo.
Accedere al piano di una lotta generale implicherebbe, invece, che gli uni e gli altri riconsiderino la propria condizione rispetto all’elemento che gli difetta. Il rapporto tra «sciopero generale» e «sciopero sociale» si gioca tutto intorno a questo nodo.
Altrimenti l’interesse di tutti, rischia di assumere tratti inquietanti. Come quel nazionalismo aggressivo in cui il fascismo faceva confluire il destino unitario dello stato corporativo. Il cosiddetto «interesse del paese», la pantomima del braccio di ferro con l’Europa dei «falchi», la retorica patriottica e l’orgoglio di facciata del «noi» nazionale, magari accompagnato da pulsioni xenofobe, finiranno col sostituire il reciproco riconoscimento tra i soggetti falcidiati dalla crisi e dal suo governo. È la favola del «sistema paese», dove gli 80 euro in busta paga convivono con la tassazione furibonda del lavoro autonomo, con i licenziamenti, con l’esclusione sociale, con il dilagare del lavoro gratuito e sottopagato, con i privilegi corporativi che uno sciopero che si voglia davvero «generale» dovrebbe iniziare a smontare nei fatti. Sarebbe bello poterci credere.
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