Norme confuse e pasticci i troppi errori sulla giustizia
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Appena 87 risarcimenti a fronte dei primi 7.351 ricorsi esaminati sui 18.000 presentati dai detenuti: l’effetto paradossale delle incertezze testuali del decreto legge d’agosto, che per sottrarre l’Italia alla condanna europea prometteva di risarcire chi fosse stato carcerato in meno di tre metri quadrati, è solo l’ultimo esempio della distanza che spesso misura i buoni propositi dalla loro realizzazione pratica.
Già lo si era colto nel pasticcio delle tabelle sulla droga nel decreto legge dopo la sentenza della Consulta; nell’imbarazzante correzione (in altro decreto legge sulla custodia cautelare per alleggerire le carceri) dello svarione del parametro della «pena da eseguire» con quello della «pena irrogata»; o nella mesta epopea dei braccialetti elettronici, ripiegata sul riciclo di quelli esistenti una volta già esaurito il piccolo stock pagato a peso d’oro. E in questi giorni stridente è il contrasto tra le trionfalistiche slide governative sulla giustizia digitalizzata e l’ennesimo «crollo», il 18 dicembre, del server nazionale, peraltro nelle ore in cui il caos delle notifiche telematiche penali non veniva sciolto da una circolare ministeriale diramata appena 48 ore prima del via nazionale.
Neppure giova la vaga sensazione di una cosmesi della realtà. Quando ad esempio il governo imbelletta con la cipria di un incentivo fiscale la già controversa esternalizzazione ai privati di larghe fette della giustizia civile, a mesi di distanza emerge che la copertura finanziaria verrebbe dall’aumento del «contributo unificato» sui processi, e cioè in realtà da una tassa; e quando giudici di sorveglianza si incuriosiscono a verificare se oggi un detenuto abbia davvero almeno i tre metri quadrati di spazio in cella pretesi da Strasburgo, le perizie (come di recente a Verona) documentano risultati talvolta difformi dai più ottimistici conteggi forniti dall’amministrazione.
Il premier fa mostra di esibire i muscoli con la «casta» dei magistrati, ad esempio sul taglio delle loro ferie con una legge scritta alla fine talmente male da non aver forse neppure raggiunto lo scopo: ma come influente sottosegretario al ministero della Giustizia si tiene intanto stretto, pur dopo le polemiche per il suo interventismo nelle recenti elezioni del Csm, proprio il capo di una delle più forti correnti di magistratura. E sulla condivisibile (se progressiva) riduzione a 70 anni dell’età pensionabile dei magistrati, è però per decreto legge — appena meno indigeribile di quello bocciato nel 2012 dalla Corte di giustizia Ue per l’Ungheria di Orban — che Renzi pone le basi perché, da un anno con l’altro a fine 2015, 400 nuovi capi di uffici giudiziari italiani siano avvicendati da un Csm dove vicepresidente siede chi appena prima faceva il sottosegretario all’Economia del suo governo, e dove pesa la corrente capeggiata proprio dal suo sottosegretario alla Giustizia.
Dato atto al premier di aver chiuso con le leggi ad personam , e al suo ministro Orlando di almeno provare a pensare alla giustizia come servizio per i cittadini, la quotidianità governativa vive però di targhe alterne: c’è il giorno in cui si riduce la carcerazione preventiva, si sperimenta la messa alla prova fino a non banali limiti di pena, si apre alla tenuità del fatto, e c’è invece il giorno in cui si fa la faccia feroce dettata dal marketing elettorale e si promette carcere per l’emergenza mediatica di turno.
Il minimo sindacale, come lo scongelamento dell’Autorità anticorruzione e il commissariamento di appalti Expo e Mose dopo quanto rivelato dalle indagini, viene infiocchettato come rivoluzione; mentre il ricorso ai contributi di magistrati come Cantone, Barbuto o Gratteri non toglie che sinora il quadro delle misure in cantiere resti allo stato gassoso del riannuncio dell’annuncio il 29 agosto del «pacchetto giustizia», declamato all’epoca come in sostanza già realizzato. E quando si fa qualcosa, il poter dire di aver «già fatto» sembra prevalere sul poter vantare di aver «ben fatto»: sicché anche attese misure appena approvate escono o già da rimaneggiare (come ad esempio il voto di scambio) o di incerta applicazione perché pasticciate nel faticoso parto, come l’autoriciclaggio infine introdotto in qualche modo perché senza di esso la legge sul rientro dei capitali dall’estero sarebbe suonata troppo simile a un condono.
E va bene che Fanfani siede nel pantheon ideale di più di un ministro del giovanilistico governo, ma non si vorrebbe di questo passo dover presto ripescare l’Einaudi del 1955: «Le leggi frettolose partoriscono nuove leggi intese ad emendare, a perfezionare; ma le nuove, essendo dettate dall’urgenza di rimediare a difetti propri di quelle male studiate, sono inapplicabili, se non a costo di sotterfugi, e fa d’uopo perfezionarle ancora, sicché ben presto il tutto diviene un groviglio inestricabile, da cui nessuno cava più i piedi; e si è costretti a scegliere la via di minore resistenza, che è di non far niente e frattanto tenere adunanze e scrivere rapporti e tirare stipendi in uffici occupatissimi a pestar l’acqua nel mortaio delle riforme urgenti».
Neppure giova la vaga sensazione di una cosmesi della realtà. Quando ad esempio il governo imbelletta con la cipria di un incentivo fiscale la già controversa esternalizzazione ai privati di larghe fette della giustizia civile, a mesi di distanza emerge che la copertura finanziaria verrebbe dall’aumento del «contributo unificato» sui processi, e cioè in realtà da una tassa; e quando giudici di sorveglianza si incuriosiscono a verificare se oggi un detenuto abbia davvero almeno i tre metri quadrati di spazio in cella pretesi da Strasburgo, le perizie (come di recente a Verona) documentano risultati talvolta difformi dai più ottimistici conteggi forniti dall’amministrazione.
Il premier fa mostra di esibire i muscoli con la «casta» dei magistrati, ad esempio sul taglio delle loro ferie con una legge scritta alla fine talmente male da non aver forse neppure raggiunto lo scopo: ma come influente sottosegretario al ministero della Giustizia si tiene intanto stretto, pur dopo le polemiche per il suo interventismo nelle recenti elezioni del Csm, proprio il capo di una delle più forti correnti di magistratura. E sulla condivisibile (se progressiva) riduzione a 70 anni dell’età pensionabile dei magistrati, è però per decreto legge — appena meno indigeribile di quello bocciato nel 2012 dalla Corte di giustizia Ue per l’Ungheria di Orban — che Renzi pone le basi perché, da un anno con l’altro a fine 2015, 400 nuovi capi di uffici giudiziari italiani siano avvicendati da un Csm dove vicepresidente siede chi appena prima faceva il sottosegretario all’Economia del suo governo, e dove pesa la corrente capeggiata proprio dal suo sottosegretario alla Giustizia.
Dato atto al premier di aver chiuso con le leggi ad personam , e al suo ministro Orlando di almeno provare a pensare alla giustizia come servizio per i cittadini, la quotidianità governativa vive però di targhe alterne: c’è il giorno in cui si riduce la carcerazione preventiva, si sperimenta la messa alla prova fino a non banali limiti di pena, si apre alla tenuità del fatto, e c’è invece il giorno in cui si fa la faccia feroce dettata dal marketing elettorale e si promette carcere per l’emergenza mediatica di turno.
Il minimo sindacale, come lo scongelamento dell’Autorità anticorruzione e il commissariamento di appalti Expo e Mose dopo quanto rivelato dalle indagini, viene infiocchettato come rivoluzione; mentre il ricorso ai contributi di magistrati come Cantone, Barbuto o Gratteri non toglie che sinora il quadro delle misure in cantiere resti allo stato gassoso del riannuncio dell’annuncio il 29 agosto del «pacchetto giustizia», declamato all’epoca come in sostanza già realizzato. E quando si fa qualcosa, il poter dire di aver «già fatto» sembra prevalere sul poter vantare di aver «ben fatto»: sicché anche attese misure appena approvate escono o già da rimaneggiare (come ad esempio il voto di scambio) o di incerta applicazione perché pasticciate nel faticoso parto, come l’autoriciclaggio infine introdotto in qualche modo perché senza di esso la legge sul rientro dei capitali dall’estero sarebbe suonata troppo simile a un condono.
E va bene che Fanfani siede nel pantheon ideale di più di un ministro del giovanilistico governo, ma non si vorrebbe di questo passo dover presto ripescare l’Einaudi del 1955: «Le leggi frettolose partoriscono nuove leggi intese ad emendare, a perfezionare; ma le nuove, essendo dettate dall’urgenza di rimediare a difetti propri di quelle male studiate, sono inapplicabili, se non a costo di sotterfugi, e fa d’uopo perfezionarle ancora, sicché ben presto il tutto diviene un groviglio inestricabile, da cui nessuno cava più i piedi; e si è costretti a scegliere la via di minore resistenza, che è di non far niente e frattanto tenere adunanze e scrivere rapporti e tirare stipendi in uffici occupatissimi a pestar l’acqua nel mortaio delle riforme urgenti».
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