Il movimento black prova a crescere

by redazione | 16 Dicembre 2014 12:46

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Davanti al Capi­tol, la cupola del par­la­mento ame­ri­cano, sabato scorso hanno par­lato con elo­quenza sin­go­lare: la madre, la vedova e le figlie di Eric Gar­ner, morto per aver ven­duto abu­si­va­mente siga­rette, la madre di Tray­von Mar­tin, ucciso per­ché «sospet­toso», i geni­tori di Michael Brown, la madre del dodi­cenne Tamir Rice, col­pe­vole di aver impu­gnato un gio­cat­tolo, la madre di Ama­dou Diallo, il padre di John Cra­w­ford Jr., assas­si­nato in un super­mer­cato Wal­Mart per aver preso in mano un fucile gio­cat­tolo per il figlio. Hanno rac­con­tato le loro sto­rie come fami­glie di caduti in guerra: quella stri­sciante che si com­batte ogni giorno sulle strade dei quar­tieri poveri e neri d’America. Erano i parenti di alcune delle vit­time più note ma rap­pre­sen­ta­vano le cen­ti­naia di una strage silen­ziosa, quella delle vit­time disar­mate che nella stra­grande mag­gio­ranza dei casi — 17 volte di più — sono afroa­me­ri­cani o immi­grati. La loro pre­senza, assieme per la prima volta su uno stesso palco, ha ridato dignità e uma­nità ai gio­vani troppo spesso rele­gati al maca­bro elenco delle sta­ti­sti­che e un volto potente al movi­mento che sta infine dicendo basta.

La vio­lenza della poli­zia è solo il sin­tomo più visi­bile di un raz­zi­smo isti­tu­zio­nale che rimane anni­dato nel sistema giu­ri­dico e nel sistema car­ce­ra­rio, quel «sistema penale indu­striale» che conta 2 milioni di dete­nuti dei quali ben il 40% sono afroa­me­ri­cani mal­grado essi costi­tui­scano a mala­pena il 10% della popo­la­zione gene­rale. Una ingiu­sti­zia palese denun­ciata per­fino dall’attor­ney gene­ral di Obama, Eric Hol­der, che lo ha defi­nito «uma­na­mente e moral­mente insostenibile».

Nel 2005, dieci anni prima di Tamir Rice, ave­vamo seguito da South Cen­tral la vicenda di Devin Brown, tre­di­cenne stu­dente delle medie nel quar­tiere nero di Los Ange­les, che una notte d’inverno con un amico aveva rubato un auto. Inter­cet­tato dalle volanti il bam­bino si era schian­tato con­tro un infer­riata, non gli fu dato nean­che il tempo di scen­dere dalla mac­china che fu fred­dato da 10 colpi spa­rati da una 9mm d’ordinanza. Il fatto pro­vocò all’epoca un po’ più di scal­pore del solito per la gio­vane età del ragazzo, ma dopo le lacrime, la rab­bia, la veglia a lume di can­dela e i fiori lasciati sul mar­cia­piede, la noti­zia venne archi­viata come cento altre senza alcun pro­ce­di­mento penale a carico degli agenti.

Da allora le stime dicono che ci sono stati altri mille «morti di poli­zia» rima­sti impu­niti, un «segreto alla luce del sole» taci­ta­mente accet­tato, ma che da que­sto autunno è diven­tato molto più dif­fi­cile da igno­rare gra­zie all’indignazione che da Fer­gu­son è sfo­ciata in un nuovo movi­mento nazio­nale per diritti civili.

A New York, dove sabato hanno sfi­lato in 25.000, dome­nica c’è stata la prima diSelma, il film di Ava DuVer­nay che con sin­go­lare tem­pi­smo rac­conta la cam­pa­gna di Mar­tin Luther King nella città dell’Alabama. L’intero cast è giunto alla pro­ie­zione indos­sando t-shirt con lo slo­gan del movi­mento, «I Can’t Brea­the» per «gemel­lare» quella lotta di oggi. A ben vedere però la justice for all march su Washing­ton ha evi­den­ziato un altro paral­lelo col 1963: le divi­sioni interne che comin­ciano a emer­gere. La mani­fe­sta­zione è stata orga­niz­zata da Al Sharp­ton, il reve­rendo che da trent’anni esprime il «dis­senso» afro­me­ri­cano. Ma Sharp­ton è una figura dalle cre­den­ziali poli­ti­che piut­to­sto equi­vo­che, assurto a noto­rietà nazio­nale negli anni Ottanta come avvo­cato di Tawana Bra­w­ley, la ragazza di New York che denun­ciò vio­lenze raz­zi­ste da parte di un gruppo di poli­ziotti , ma che fini­rono per rive­larsi false. Tito­lare di un talk show e in pas­sato di un reality-show, Sharp­ton viene spesso tac­ciato di pre­sen­zia­li­smo da parte di altri espo­nenti black (per ultimo Cor­nel West che lo ha esor­tato a mode­rare la con­ge­nita attra­zione per le tele­ca­mere). Un con­ten­zioso venuto alla luce pro­prio sul palco di Washing­ton quando il ser­vi­zio d’ordine di Sharp­ton ha ten­tato di togliere il micro­fono al gruppo dei ragazzi di Fer­gu­son, la prima linea del movi­mento sin dalla scorsa estate, fau­tori di que­sta nuova onda. «Lascia­teli par­lare», ha into­nato in coro una parte con­si­stente dei pre­senti che si è schie­rata con loro.

La frat­tura gene­ra­zio­nale evoca quelle che c’erano anche negli anni Ses­santa fra la Sou­thern Chri­stian Lea­der­ship Con­fe­rence (Sclc) di King e i più mili­tanti Stu­dent Non­vio­lent Coor­di­na­ting Com­mit­tee (Sncc).

Sabato alla con­co­mi­tante mar­cia di Los Ange­les, abbiamo par­lato con Mir, una ragazza ven­ti­cin­quenne che in piedi sul camion scan­diva gli slo­gan alla testa del cor­teo. «È inte­res­sante ricor­dare che allora le anime del movi­mento, quella paci­fi­sta di King e quella mili­tante di Mal­colm X, fini­rono per con­ver­gere», ci ha detto. «La vera tra­ge­dia è che siamo qui oggi, costretti a com­bat­tere di nuovo le bat­ta­glie vinte con il san­gue dai miei padri e dai miei nonni». In que­sto senso è effet­ti­va­mente emble­ma­tica la sen­tenza della corte suprema che l’anno scorso ha sman­tel­lato alcuni arti­coli fon­da­men­tali del voting rights act — la legge sul diritto di voto che fu la chiave di volta delle con­qui­ste di King.

Dopo il «die-in», durante il quale due­cento mani­fe­stanti si sono sdra­iati davanti a Union sta­tion, la sta­zione cen­trale di La, Mir ha aggiunto: «Ad essere del tutto sin­ceri è dif­fi­cile oggi par­lare di un movi­mento uni­ta­rio, sem­mai ce ne sono molti paral­leli. I ocial ci aiu­tano molto a spar­gere la voce, indire azioni, ma è un coor­di­na­mento che rimane per ora super­fi­ciale. Secondo me manca la con­vin­zione e forse anche la sag­gezza di qual­cuno con la visione suf­fi­ciente ad ispi­rare e dare una dire­zione uni­ta­ria al movi­mento. Pur­troppo le con­qui­ste di cinquant’anni fa in molti casi sono state azze­rate da un ven­ten­nio di rea­ga­ni­smo e dal neo­li­be­ri­smo che vi è seguito. La nostra gene­ra­zione non solo non può più retro­ce­dere ma dob­biamo col­le­gare la nostra lotta ai temi glo­bali, tro­vare il modo di inven­tare un mondo migliore per tutti». Gli ha fatto eco John, sulla set­tan­tina, cap­pel­lac­cio alla Indiana Jones cal­cato in testa, coor­di­na­tore dei legali volon­tari di legal-aid, uno che di mani­fe­sta­zione ne ha viste parec­chie e si ricorda anche quelle degli anni Ses­santa. «Non è più tol­le­ra­bile ciò che avviene oggi in que­sto paese — le ucci­sioni della poli­zia sono come un’emorragia per le comu­nità nere e ispa­ni­che. Ora la coin­ci­denza di una serie di casi par­ti­co­lar­mente ecla­tanti ha risve­gliato le coscienze soprat­tutto dei ragazzi, e gene­rato que­sto movi­mento nazio­nale. Chi si era fatto imbo­nire dalla “pre­si­denza nera” di Obama comin­cia a capire che sarà neces­sa­ria una nuova, dura lotta per la giustizia».

«Occupy ha spia­nato il ter­reno», dice Mary una pro­fes­so­ressa uni­ver­si­ta­ria di sto­ria sin­da­cale, che a Los Ange­les ha sfi­lato coi suoi stu­denti. «Credo che sia stato sot­to­va­lu­tato, que­sti sono i frutti anche di quel movi­mento». Occupy però, pur dopo 2 anni di mobi­li­ta­zione nazio­nale è stato rias­sor­bito anche per man­canza di stra­te­gia uni­ta­ria e obbiet­tivi con­creti. Che si tratti o meno di un «nuovo 1963» quasi tutti sono d’accordo che occorre ora affian­care alle mani­fe­sta­zioni una fase pro­po­si­tiva. Prima di lasciare la mani­fe­sta­zione di Los Ange­les par­liamo ancora con il reve­rendo «Q», nero con alle spalle anni di lavoro a favore degli home­less e con­tro gli abusi del Lapd, «I nostri ante­nati hanno ini­ziato la mar­cia verso la giu­sti­zia — dice — Ora sta a noi por­tarla termine».

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