Oltre l’ultimo Muro un esercito di hacker all’ombra della Cina

Oltre l’ultimo Muro un esercito di hacker all’ombra della Cina

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PECHINO . Incrinato quello tra Cuba e gli Usa, l’ultimo Muro del Novecento intatto corre per 248 chilometri lungo il 38° parallelo, tra il Mar Giallo e quello del Giappone. Non divide solo le due Coree, le democrazie occidentali e gli autoritarismi asiatici: isola oggi il solo popolo rimasto diviso con la forza e circoscrive l’unico regime che nessuna super-potenza, a 62 anni dall’armistizio che pose fine al massacro di oltre un milione di ragazzi-soldati, è in grado di attaccare. L’irraggiungibile Pyongyang, capitale-bunker della sola dinastia ereditaria comunista sopravvissuta al 1989, è un mistero sul fondo di un infinito buco nero. I servizi segreti di Seul e di Tokyo la descrivono sull’orlo della cataporanea umanitaria, prossima al fallimento economico, martoriata da una popolazione alla fame e dalla tragedia dei campi di concentramento, scossa da una leadership in balìa dei generali e delle faide famigliari. I rapporti militari lanciano invece l’allarme sulla ripresa della sua corsa atomica, rivelano ripetuti test di missili di ultima generazione e descrivono movimenti di truppe forti di un milione di effettivi e di altrettanti riservisti: ma soprattutto denunciano la costruzione della più avanzata armata contemge di cyber-terroristi di Stato.
Come può, si è chiesta la Cia nelle ultime ore, un Paese fallito, prostrato dalle sanzioni Onu e dipendente dalle forniture alimentari di Pechino e di Mosca, esibire all’improvviso arsenali, eserciti e capacità tecnologiche da super-potenza economica, militare e della ricerca? È questo l’incubo globale ridestato dall’attacco-hacker contro la Sony Pictures, che ha suggerito a Washington e a Hollywood il clamoroso stop alla distribuzione del film “The Interview”: non il pericolo di un salto di qualità delle nuove guerre elettroniche, ma la scoperta che la dittatura- farsa della famiglia Kim, cela potenzialità distruttive che solo interessi e complicità governative al massimo livello possono giustificare. Si scrive Corea del Nord ma si legstrofe ancora Cina e Russia: la vera ragione che ha consigliato alla Casa Bianca di ridimensionare ufficialmente l’attacco anti-Sony, cercando prima di capire se i guerrieri della Rete non siano mercenari del Nord con obbiettivi assai diversi dal boicottaggio dei cinema Usa. Ieri la Cina ha garantito la propria opposizione «ai cyber-attacchi e al cyber-terrorismo in tutte le sue forme». Il Quotidiano del popolo ha posto, però, la domanda che le diplomazie occidentali solo sussurravano: «Cosa sarebbe successo se una compagnia cinematografica nordcoreana avesse girato un film in cui due spie di Pyongyang assassinano il presidente Barack Obama? E cosa distingue le nuove forme di attentato a democrazia e business, dai rinnovati condizionamenti delle contrapposte propagande?».
La risposta è il macabro palcoscenico montato a nord del 38° parallelo, surrogato mai combattuto della terza guerra mondiale che anche Papa Francesco sogna di riunire in un «solo popolo di fratelli». E il salto di qualità, rispetto al cambio di regime nel 2012, appare già abissale. Sotto Kim Jong-il, l’attenzione era concentrata sui depositi delle testate atomiche e sui laboratori sotterranei in cui gli scienziati comunisti lavorano all’arricchimento dell’uranio. Con l’ascesa del figlio Kim Jongun si è spostata sugli uffici in cui gli ingegneri elettronici della dittatura affinano i virus e le chiavi-web capaci di infettare e di violare i sistemi di multinazionali e Stati. Il caso Sony, con la ridicola umiliazione del leader-dio, ha fatto saltare i nervi a Pyongyang. A Tokyo e a Seul, a differenza che a New York, l’allarme suona però non per il ringhio di Kim, ma per l’agghiacciante squarcio di luce che da fine novembre s’è acceso sulla potenza del suo cyber-apparato bellico. La retorica storica sul massacro coreano della Guerra Fredda, tra il 1950 e il 1953, finisce in soffitta assieme ai fili spinati della “zona demilitarizzata” di Panmunjeom e ai cecchini del Nord e del Sud, che ancora si fronteggiano dalle torrette del confine più esplosivo e imbalsamato del Duemila. Il misterioso ricatto che paralizza Sony Pictures, senza che nessuno sia in grado di far cadere la maschera ai terroristi online, ridisegna infatti il profilo del “regno eremita” e ridefinisce la definizione di “guerra informatica”, spostandola dalle infrastrutture vitali di un Paese agli interessi essenziali del suo appiattaforme parato industriale e commerciale. «Pyongyang ha capito — dice lo storico Hyung Gu Lynn — che colpire l’economia oggi miete più vittime che destabilizzare la politica. Un gruppo di hacker, per il capitalismo, è più devastante di una testata atomica e chi assedia il web bombarda il pianeta». Con un particolare che toglie il sonno a sistemi di difesa convenzionali improvvisamente invecchiati: delocalizzare squadre di cybersoldati dal colletto bianco è meno impresentabile che fornire missili a Paesi alleati e allestire elettroniche per attacchi altrui impedisce di identificare i nemici.
Il nuovo “scenario coreano”, in cui il “museo del Novecento sospeso” proietta la sua ombra sul presente, è dunque quello di un iper-tecnologico regime in affitto, pronto a scatenarsi contro gli avversari di chi lo sostiene, in cambio della sopravvivenza del suo leader. Hacker per conto terzi pur di concedere ai Kim di calcare la scena fino a quando servirà. Pechino e Mosca offrono così collaborazione a Washington contro «un conflitto devastante che può far implodere la rivoluzione digitale »: è questa esibita disponibilità ad alzare ancora di più l’ultimo cyber-Muro del Duemila, che divide Pyongyang anche dalla possibilità estrema di ipotizzare un futuro.


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