LONDRA.«LA lotta di classe è finita», disse Tony Blair quando andò al potere nel 1997. Due decenni più tardi sembra improvvisamente ricominciata. Un ministro conservatore è sotto accusa per avere chiamato «fottuto plebeo» un poliziotto. Un altro deve scusarsi per avere detto a un tassista «lei non sa chi sono io». Un terzo si diverte a infilare mezza dozzina di volta il termine cock (cazzo) in un discorso alla camera dei Comuni, solo per il gusto di vincere una scommessa con i suoi colleghi. E se i Tories sono considerati da sempre il partito dell’aristocrazia, della classe dirigente, degli intoccabili, in questi giorni anche i loro avversari laburisti diventano il bersaglio di analoghe accuse, con una deputata costretta a dimettersi per avere preso in giro il “popolino” e perfino il leader Ed Miliband ridicolizzato perché non riesce a mangiare un “blt”, il sandwich alla pancetta, pomodoro e lattuga, classico panino dell’inglese medio, senza rischiare di farselo andare di traverso.
«Come distinguere le due élite metropolitane», titola il Times fotografando le tribù contrapposte della politica made in Britain alla luce dei succitati episodi: le radici ideologiche sono diverse, slogan, programmi, quartieri dove abitano, usi e costumi sono differenti, afferma il quotidiano londinese, ma in fondo provengono dalle stesse scuole ed università, hanno lo stesso accento e stile di vita, insomma sono più simili di quanto non sembri. Da sempre presente, accettato come la norma o almeno tollerato al parlamento di Westminster, a un tratto l’elitarismo appare più imbarazzante perché coincide con l’ascesa dell’Ukip, il partito populista che si vanta di rappresentare la gente, l’uomo della strada, le persone “normali”. Riproponendo come tema del giorno una vecchia questione: il classismo, visto come il peccato originale della società britannica, comunque come la sua caratteristica più riconoscibile.
È proprio vero? L’accusa può sembrare un falso problema nella scintillante Londra globalizzata e multietnica, calamita di immigrati da tutto il pianeta. Eppure le gaffe in serie commesse negli ultimi tempi da conservatori e laburisti danno maggiore credibilità alla tesi. Andrew Mitchell, ex capo della maggioranza Tory alla camera dei Comuni, ha fatto causa per diffamazione al Sun , autore dello scoop di qualche mese fa sull’insulto da lui gridato a un poliziotto che non voleva lasciarlo passare con la sua bicicletta dai cancelli di Downing Street: «Fucking pleb», fottuto plebeo. Il giudice ha dato ragione al Sun, Mitchell dovrà vendersi la casa per pagare i danni, la sua carriera politica è finita: la gente, inclusa quella che vota partito conservatore, non vuole più vederlo, avverte un sondaggio.
David Mellor, ex ministro dei Tories, prende un taxi per tornare a casa da Buckingham Palace dove sua moglie ha ricevuto un’onorificenza, bisticcia sul percorso con il tassista e comincia a minacciarlo: «Tu sei un nessuno e io sono un consigliere della regina, come osi protestare, te la farò vedere». Il tassista registra tutto sul telefonino, la conversazione finisce sui giornali, Mellor si scusa («avevo bevuto troppo»), l’associazione dei “black cab”, i taxi neri londinesi, lo mette al bando dalle sue auto. Da ultimo una sottosegretaria conservatrice, Penny Mourdant, viene beccata a dire “cock” sei volte in un dibattito in parlamento e poi ammette con un’alzata di spalle: «L’ho fatto per scommessa». Che c’è di male?, sembra dire. Ai politici tutto è permesso.
Peggio di così, a sei mesi dalle elezioni, ai conservatori non potrebbe andare. Senonché i laburisti fanno altrettanto o appunto peggio. Emily Thornberry, ministro nel governo ombra del Labour, mette su Twitter la foto di una casetta con un furgoncino bianco parcheggiato davanti e la bandiera di San Giorgio, simbolo dell’Inghilterra, alla finestra, per ironizzare sulla vittoria dell’Ukip nel voto per un seggio suppletivo ai Comuni. La foto ha un chiaro significato nell’immaginario inglese, non c’è neppure bisogno di commento scritto. Vuol dire: «Avete vinto con i voti dei burini». Cioè col sostegno di quella frangia ignorante, xenofoba, violenta, che detesta stranieri, immigrati, Unione europea. Ma siccome è anche il ritratto del popolino, perlomeno di una parte della classe lavoratrice, scoppia il finimondo. Il leader laburista Miliband costringe la Thornberry a dimettersi. Lei si difende esibendo a sua volta la bandiera di San Giorgio fuori di casa (nel quartiere londinese alla moda di Islington, però) e citando pateticamente il fatto che anche suo fratello è un operaio e guida un furgoncino. «Proviamo rispetto per questo tipo di persone », giura Miliband. Frattanto dalla casa fotografata su Twitter fuoriesce l’inquilino: cranio rasato a zero, tatuaggi. «Non mi basta il rispetto», ringhia, «quel Miliband deve venire qui a scusarsi di persona con me».
Il leader se ne guarda bene, naturalmente. Qualcuno lo accusa di avere ceduto al panico, «doveva giustificare la sua ministra, è vero che per l’Ukip vota il popolino xenofobo con cui non vogliamo avere a che fare», si arrabbia la deputata laburista Diane Abbott. Altri tuttavia ricordano che una gaffe simile (definì «bigotta» un’elettrice che aveva parlato male degli immigrati, senza accorgersi che un microfono della tivù registrava il suo commento), ha contribuito cinque anni fa a far perdere le elezioni all’allora premier laburista Gordon Brown, facendo passare anche lui per un “nemico del popolo”, un freddo intellettuale incapace di capire le preoccupazioni dei suoi compatrioti. E Miliband è l’ultimo che può dare lezione in materia: i suoi gesti per apparire popolare e alla mano gli si rivoltano puntualmente contro, come quando ha provato a mangiare davanti ai fotografi un sandwich “blt” e per poco non si è strozzato, o quando ha fatto l’elemosina a una mendicante ed è saltato fuori che le ha dato soltanto due penny, facendosi pure fama di taccagno.
Morale: la mappa dei leader dei due schieramenti, pubblicata dal Times, li descrive come più simili che diversi. I leader conservatori abitano a Notting Hill (nord-ovest Londra), guidano la Range Rover e hanno un Labrador, i laburisti abitano a Primrose Hill (nord-est di Londra), guidano una vecchia Audi e hanno un gatto, ma come istruzione, gusti, comportamenti e spesso pure reddito appartengono tutti all’ upper class. Nel ’97, quando annunciò «the end of the class war», la fine della guerra o della lotta di classe, Blair prediceva che la mobilità sociale avrebbe frantumato le vecchie divisioni della società inglese in élite, middle-class e working-class, trasformandola in una democrazia delle opportunità in cui tutti possono realizzare le proprie aspirazioni.
Per un po’ è sembrato possibile. Ma dalla crisi del 2008 è emersa una nazione in cui il gap ricchipoveri si allarga invece che ridursi e il 7 per cento dei giovani usciti dalle costose scuole private (25 mila sterline l’anno di retta) vanno poi a formare il 45 per cento della classe dirigente. «Embè, abbiamo fatto delle differenze di classe la nostra esportazione di maggior successo, tutto il mondo ci compra lo sceneggiato Downton Abbey » , scherza la columnist Rachel Sylvester. Di colpo tuttavia politici, sociologi, giornalisti si scervellano sul “white van man”, l’uomo del furgoncino bianco, inteso come nuova figura sociale da cui dipende il destino dell’Inghilterra. O, come minimo, la vittoria alle elezioni della primavera prossima.