Gli strumenti sono diversi, militari quelli di Washington, violenti quelli di al-Baghdadi. Teatro della nuova barbarie islamista è Fallujah, città della provincia di Anbar, tra le più inquiete fin dai tempi di Saddam Hussein, roccaforte della resistenza sunnita e palcoscenico di durissimi scontri tra truppe Usa e insorti negli anni dell’occupazione.
Un massacro quello compiuto a Fallujah, secondo il Ministero iracheno per i Diritti Umani: un miliziano islamista, Abu Anas al-Libi, avrebbe giustiziato da solo oltre 150 donne che avevano rifiutato di diventare le mogli-concubine dei combattenti Isis. Avevano detto no al “matrimonio della Jihad”, Jihad el-Nikah, pilastro dell’ideologia predicata dal califfo al-Baghdadi.
Le donne sarebbero state sepolte nell’ennesima fossa comune. A dicembre 2013, mesi prima dell’inizio dell’avanzata dell’Isis, la provincia di Anbar era stata parzialmente presa dalle milizie di al-Baghdadi: Ramadi e Fallujah sono state teatro del primo tentativo di occupazione del califfo, che ha approfittato della rabbia sunnita per l’assenza di Baghdad e l’esclusione dal potere politico ed economico del paese.
E se il califfo fa leva sulla violenza indiscriminata per dividere le etnie irachene e siriane (mercoledì nella provincia di Deir Ezzor in Siria è stata trovata una fossa comune con i cadaveri di 230 membri della tribù Shaitat, sollevatasi contro l’Isis), c’è chi agisce seguendo vie legittimate dalla comunità internazionale. I peshmerga – considerati il più valido braccio armato contro lo Stato Islamico – dopo due giorni di controffensiva a Sinjar hanno aperto un corridoio per liberare migliaia di yazidi rimasti intrappolati da agosto sul monte assediato dall’Isis.
Un’operazione che il presidente del Kurdistan iracheno, Barzani, sottolinea essere stata condotta dalle sole forze militari kurde, nell’indifferenza di Baghdad. I peshmerga, sostenuti da 45 raid della coalizione, hanno attaccato il monte Sinjar da Zumar, a est, strappando all’Isis almeno 7 villaggi.
La controffensiva, dicono i generali kurdi, era volta a liberare quella parte della minoranza yazidi ancora nella morsa islamista. Del dramma del popolo yazidi media e comunità internazionale parlarono per giorni ad agosto, aprendo la strada all’intervento della Casa Bianca: i primi raid Usa colpirono le postazioni Isis a Sinjar, mentre gli aiuti umanitari piovevano (con non pochi errori) sui profughi. Poco dopo, la minoranza è finita nel dimenticatoio: chi è riuscito a raggiungere il Kurdistanvive oggi in palazzi in costruzione o sotto i ponti, quasi privo di aiuti.
Molti altri erano invece rimasti intrappolati a Sinjar, dopo la fuga dei peshmerga che all’epoca preferirono non scontrarsi con gli islamisti. Cosa cambia oggi? Sinjar è un punto strategico per la protezione di Irbil, a metà strada tra la Siria e i confini con il Kurdistan iracheno. All’inizio dell’offensiva, l’Isis risparmiò il Kurdistan e si parlò di accordi sottobanco per la spartizione del territorio tra islamisti e kurdi iracheni, che approfittarono del caos per prendersi la ricca Kirkuk.
Ma oggi che l’Isis punta ad Irbil, teatro di attacchi kamikaze e attentati alla frontiera, Barzani – che aveva sperato di ottenere dall’avanzata islamista maggiore autonomia da Baghdad – non dorme più sonni tranquilli. Si muove anche Washington, nonostante il mantra del “nessuno stivale sul terreno”: secondo rapporti locali iracheni, ad Anbar alcuni degli oltre 3mila consiglieri militari Usa si sarebbero direttamente scontrati con miliziani Isis per evitare la caduta della provincia e l’allargamento del fronte islamista.
Che continua a espandersi: secondo il quotidiano israeliano Haaretz tre gruppi anti-Assad che hanno giurato fedeltà all’Isis nelle ultime settimane (Shuhada al-Yarmouk, la Brigata Abu Mohammed al-Tilawi e Beit al-Maqdis) si sarebbero concentrati intorno Deraa, la città siriana al confine con Israele e controllerebbero – insieme al Fronte al-Nusra – la zona del valico di Quneitra.
Nei mesi appena trascorsi le truppe di Damasco hanno perso il controllo del sud, per il 90% in mano a opposizioni islamiste e laiche. Secondo le Nazioni Unite, le milizie anti-Assad avrebbero contatti diretti con Israele che avrebbe consegnato armi e ricoverato quasi 400 miliziani feriti nei propri ospedali.
L’eventuale presenza dell’Isis mescolerebbe le carte sul tavolo israeliano che ha finora agito al fine di rafforzare le opposizioni laiche (ma non solo) per neutralizzare Assad e l’esercito arabo più imponente al confine, mantenere la Siria – come dice l’analista israeliano Harel – in «una stabile instabilità» e aiutare indirettamente la distruzione del paese, che per anni sarà occupato a ricostruirsi disinteressandosi di Israele.