Jobs act, un referendum

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L’emanazione del decreto attua­tivo del Jobs act, che eli­mina, in sostanza, la tutela dell’articolo 18 dello Sta­tuto per i futuri con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato non chiude affatto la par­tita, ma è solo la pre­messa del con­fronto vero che avrà per pro­ta­go­ni­sti i lavo­ra­tori, nelle piazze e, se neces­sa­rio, alle urne in un refe­ren­dum abrogativo.

Non è inu­tile, comun­que, ma anzi assai istrut­tivo, riper­corre alcuni momenti salienti della vicenda e le con­sa­pe­vo­lezze che ha con­sen­tito di acqui­sire. In primo luogo, infatti, nes­suno si azzarda più a defi­nire «di sini­stra» il governo Renzi-Poletti che si è dimo­strato tanto vio­lento e pre­va­ri­ca­tore nella sua azione con­tro i diritti fon­da­men­tali dei lavo­ra­tori, quanto falso e misti­fi­cante nell’uso del suo stra­po­tere media­tico.
In cosa con­si­ste, infatti, la «rivo­lu­zione coper­ni­cana» di cui stra­parla Mat­teo Renzi a pro­po­sito dei con­te­nuti del decreto attua­tivo? Pura­mente e sem­pli­ce­mente nel con­sen­tire al datore di lavoro che voglia per qual­siasi motivo (anche il più igno­bile) sba­raz­zarsi di un lavo­ra­tore di «inven­tarsi» una ine­si­stente ragione eco­no­mico pro­dut­tiva per pro­ce­dere al licen­zia­mento, e di farlo senza timore che il suo carat­tere pre­te­stuoso venga sma­sche­rato in giu­di­zio per­ché anche in tal caso gli baste­rebbe pagare la clas­sica «mul­ta­rella» (per ogni anno di ser­vi­zio due men­si­lità con il mas­simo di 24) per lasciare comun­que il lavo­ra­tore sulla strada nella con­di­zione dispe­rata discen­dente dalla disoc­cu­pa­zione di massa.

Tutto il resto del decreto attua­tivo, com­presa la dibat­tuta que­stione della par­ziale della rein­te­gra nel caso di licen­zia­menti disci­pli­nari ille­git­timi, è sol­tanto fumo negli occhi, per­ché tutti i datori imboc­che­ranno, invece, la como­dis­sima strada del «falso» motivo eco­no­mico pro­dut­tivo. Il «pro­gres­si­sta» Renzi e il «comu­ni­sta» Poletti e tutti i loro acco­liti dovranno spie­gare un giorno che cosa vi sia di moderno, di social­mente utile, di pro­gres­sivo, di «coper­ni­cano» in que­sta sfac­ciata e disgu­stosa ingiu­sti­zia che ripu­gna prima ancora che al diritto al comune senso etico.

Il secondo inse­gna­mento della vicenda ha riguar­dato il pre­sen­tarsi, ancora una volta del clas­sico «tra­di­mento dei chie­rici» per tale inten­dendo i tec­nici, i tec­nici poli­tici e i poli­tici puri che avreb­bero dovuto garan­tire i diritti fon­da­men­tali dei lavo­ra­tori assi­cu­rati dall’articolo 18 con la sua potente valenza anti ricat­ta­to­ria. Da una parte, dun­que, vi sono stati i tec­nici poli­tici che hanno lavo­rato inten­sa­mente alla for­mu­la­zione della legge delega e dei decreti attua­tivi ma di essi non mette conto dire più di tanto: si tratta di un grup­petto di anti­chi tran­sfu­ghi del movi­mento sin­da­cale che con l’accanimento tipico di chi «è pas­sato dall’altra parte» opera ormai da decenni — certo non gra­tui­ta­mente — per la siste­ma­tica demo­li­zione di ogni tutela dei lavo­ra­tori. Ma dall’altra parte pur­troppo vi sono stati poli­tici ossia i par­la­men­tari della cosid­detta «sini­stra del Pd», a parole del tutto con­trari al Jobs act, ma che nel con­creto hanno col­la­bo­rato in modo asso­lu­ta­mente deci­sivo alla sua ema­na­zione, e lo hanno fatto con piena con­sa­pe­vo­lezza. Prima vi è stato il «sal­va­gente» offerto al governo dal pre­si­dente della Com­mis­sione lavoro della Camera e con­si­stito nell’apparente miglio­ra­mento, con alcune pre­ci­sa­zioni, del pro­getto di delega che era «in bianco»: il vero scopo è stato quindi quello di sal­vare il pro­getto di delega cer­cando di ren­derlo com­pa­ti­bile con l’articolo 76 Cost. e di que­sto abbiamo detto sulle colonne del mani­fe­sto. Poi vi è stato, in data 3 dicem­bre 2014, l’episodio depri­mente e squal­lido che mai potrà essere dimen­ti­cato. Sem­brava che il destino avesse voluto pre­pa­rare un momento della verità: il testo del Jobs Act modi­fi­cato alla Camera per sal­varlo dall’incostituzionalità era con­se­guen­te­mente tor­nato al Senato, dove però la mag­gio­ranza del governo era assai più sot­tile. E al Senato vi erano 27 sena­tori del Pd che si erano dichia­rati con­trari all’eliminazione dell’articolo 18 ma che poi, al momento di deci­dere, hanno invece appro­vato il testo legi­sla­tivo giu­sti­fi­can­dosi con il clas­sico docu­mento «salva-anima» sulla neces­sità di non pro­vo­care crisi di governo. Ebbene, il risul­tato della vota­zione li inchioda per sem­pre alla loro respon­sa­bi­lità: vi sono stati 166 voti favo­re­voli, 112 con­trati e un aste­nuto. Se i 27 «amici» dei lavo­ra­tori e dei loro diritti aves­sero coe­ren­te­mente votato con­tro il pro­getto il risul­tato sarebbe stato di 139 favo­re­voli, 139 con­trari e un aste­nuto e poi­ché l’astensione al Senato conta voto nega­tivo il Jobs Act sarebbe andato in sof­fitta una volta per tutte! Il colmo dell’ipocrisia i 27 sena­tori lo hanno poi rag­giunto nella chiu­sura di quel docu­mento di giu­sti­fi­ca­zione pro­met­tendo mas­sima vigi­lanza in sede di for­mu­la­zione dei decreti attua­tivi: enun­cia­zione ridi­cola, visto che come tutti sanno, i decreti attua­tivi il legi­sla­tore dele­gato «se li fa da solo» senza il con­corso del Parlamento.

Accanto a que­ste brut­ture, che è tri­ste ma giu­sto ricor­dare, vi sono stati, però, impor­tanti fatti posi­tivi: l’ottima riu­scita della mani­fe­sta­zioni del 25 otto­bre e del 12 dicem­bre e l’affiancamento quanto mai impor­tante, in occa­sione di quest’ultimo evento, della Uil alla Cgil. Ci sono, allora, tutte le pre­messe per un lieto fine: infatti per i con­tratti di lavoro già in essere non cam­bia ancora nulla e l’articolo 18 intanto rimane, rein­te­gra com­presa, e occor­rerà un bel po’ di tempo per­ché i nuovi con­tratti, detti «a tutele cre­scenti» ma in realtà privi di tutela pren­dano piede. Nel frat­tempo sarà allora pos­si­bile sot­to­porre tem­pe­sti­va­mente il decreto attua­tivo ad un refe­ren­dum abro­ga­tivo, e cioè al giu­di­zio popo­lare e di quei lavo­ra­tori che di con­ti­nuo Mat­teo Renzi cerca di ledere e insieme di ingan­nare. La via del refe­ren­dum abro­ga­tivo appare quanto mai sem­plice e frut­tuosa per­ché in sostanza il decreto attua­tivo intro­duce per i nuovi con­tratti un tipo di san­zione dei licen­zia­menti ingiu­sti­fi­cati diverso e se stante rispetto a quello degli altri rap­porti: per­tanto una volta abro­gato per refe­ren­dum il decreto la san­zione dell’articolo 18 torna ad essere gene­rale per rap­porti vec­chi e nuovi secondo il prin­ci­pio di «autoim­ple­men­ta­zione» dell’ordinamento. Chi scrive si per­mette di riven­di­care l’onore di poter per­so­nal­mente redi­gere i que­siti referendari.



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