Ilva, sì al supercommissario tra un anno Stato al 49% e Mittal-Marcegaglia al 51%

by redazione | 13 Dicembre 2014 12:00

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ROMA . Mentre si avvicina la fine dell’anno e dei fondi di cassa, per l’Ilva di Taranto la domanda più urgente ormai non è più se lo Stato entrerà come azionista. È quante volte lo farà. Negli ultimi giorni è emersa una risposta nei colloqui fra azienda, governo e potenziali investitori: probabilmente lo Stato entrerà due volte. Una quasi subito e l’altra fra un anno.
La prima dovrebbe avvenire sotto forma di un nuovo commissario straordinario di nomina governativa, sulla base della legge che regola i dissesti dei grandi gruppi. La seconda — sempre che tutto vada secondo i piani di queste ore — quando un fondo d’investimento controllato indirettamente dal ministero dell’Economia si unirà a due grandi soggetti privati, gli anglo-francesi di Arcelor- Mittal e il gruppo Marcegaglia, per riacquistare l’azienda dopo una prima fase di risanamento.
Il tempo stringe per trovare una soluzione che garantisca la continuità delle operazioni all’Ilva, il gruppo dell’acciaio che occupa 11.000 persone e mantiene un indotto almeno altrettanto vasto. Forse già il 22 dicembre, secondo un’ipotesi di lavoro a Palazzo Chigi, il consiglio dei ministri approverà il prossimo provvedimento: il passaggio allo Stato del gruppo, oggi formalmente di proprietà della famiglia Riva, attraverso l’amministrazione straordinaria prevista per le imprese in dissesto dalla Legge Marzano. Quella procedura è già stata applicata per mantenere in attività grandi aziende fallite, a partire dalla Parmalat. Ma l’Ilva è un caso diverso. Non è formalmente insolvente, dunque la stessa legge Marzano dovrà forse essere adattata. È quattro volte più grande del maggiore gruppo italiano che sia mai finito in amministrazione straordinaria, e presenta problemi industriali quasi insolubili. Ha 350 milioni di euro di debiti verso i fornitori e 35 miliardi di richieste per danni ambientali da parte della comunità di Taranto: negli ultimi anni in città si è misurato un aumento del 30% dei tumori fra gli uomini e del 20% fra le donne. In più, Ilva deve affrontare una bonifica degli impianti da 1,8 miliardi e poi rispettare nuovi vincoli di tutela dell’ambiente così costosi che la metterebbero fuori mercato.
Del caso si occupano a Palazzo Chigi due consiglieri di Matteo Renzi, l’ex amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra e l’economista della London School of Economics Marco Simoni. Li segue dal ministero dello Sviluppo anche la titolare, Federica Guidi, e l’attuale commissario dell’Ilva, Piero Gnudi. Ma è ormai chiaro che l’acciaieria di Taranto sta diventando per Renzi ciò che la crisi dell’auto fu per Barack Obama nel 2009: il banco di prova su cui si misura la capacità del leader di salvare una parte vitale del sistema industriale, prima nazionalizzandola, poi risanando per rivenderla a prezzo di mercato. Ma il fatto che sia riuscito a Obama con Chrysler o Gm non significa che riesca a Palazzo Chigi con l’acciaio.
Già il prossimo passo sarà difficile. In queste ore il governo sta cercando un commissario straordinario che sappia gestire un gruppo colossale e conosca l’industria dell’acciaio meglio di Gnudi. A questo «zar dell’acciaio» andrà affiancata in tempi brevi — altra incognita — una squadra di 50 manager di primo livello. E subito il nuovo gruppo dirigente dell’Ilva, strappata alla proprietà dei Riva e nazionalizzata nel dissesto ambientale, troverà davanti a sé un formidabile ostacolo tecnico: a marzo dovrà chiudere l’altoforno 5 di Taranto, origine di metà della produzione, e investire 320 milioni per ricostruirlo.
Nel frattempo il governo si prepara, con cautela, a gestire il problema dei vincoli ambientali. L’attuale autorizzazione a operare del ministero dell’Ambiente è così restrittiva che supera le prescrizioni dell’Unione europea e obbligherebbe a costi di manutenzione giudicati insostenibili. L’intenzione del governo è di correggere al ribasso le regole sulle emissioni, portandole in linea con i parametri europei. Sarà un’operazione delicata: Renzi non dimentica che a maggio si vota in Puglia per le regionali e per allora vuole mantenere in funzione l’Ilva nazionalizzata, senza provocare proteste a Taranto per l’inquinamento degli impianti.
Ammesso che riesca, l’intero processo dovrebbe poi preparare il passaggio successivo. L’idea sulla quale si lavora nel governo prevede la vendita del gruppo fra un anno a una cordata con tre attori forse uniti in una società-veicolo ad hoc. Il 51% dell’acquirente dovrebbe essere composto da Marcegaglia e Arcelor-Mittal, il primo gruppo mondiale dell’acciaio. Il 49% spetterebbe invece al Fondo strategico italiano, di proprietà della Cassa depositi e prestiti, per l’80% controllata dal Tesoro. Per Mittal, Ilva può diventare il primo impianto europeo, sede di unquinto della sua produzione del continente, e per questo gli indiani sarebbero disponibili a investire 2,5 o 3 miliardi in cinque anni per completare la bonifica. La presenza del fondo di Cdp servirebbe invece a rassicurare i regolatori, in modo che la magistratura tolga il sequestro ancora in vigore sull’impianto. In un secondo tempo poi Cdp uscirebbe, lasciando l’Ilva risanata ai soli azionisti privati.
Fin qui il disegno del governo, sul quale gravano delle incognite. Difficilmente per esempio Arcelor- Mittal e Marcegaglia prenderanno impegni prima di aver valutato il lavoro del commissario straordinario. Per l’Italia, non solo per Renzi, è l’ultimo esame d’appello per capire se il Paese è ancora in grado di difendere la sua base industriale.
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