I neri, l’uomo di Mokbel e i legami con Carminati
ROMA Il mistero del delitto della Camilluccia che insanguinò l’ultima estate romana — il tentato sequestro degenerato in omicidio di Silvio Fanella, coinvolto e assolto nel processo sulla maxi-truffa Telecom-Sparkle che vede al centro Gennaro Mokbel — potrebbe essere svelato da una telefonata partita dalla cabina pubblica di via Flaminia vecchia.
La stessa che utilizzava spesso Massimo Carminati, e per questo era stata messa sotto intercettazione dai carabinieri del Ros, che l’11 giugno scorso registrarono una chiamata fatta da Manlio Denaro, amico dell’ex estremista nero ora accusato di essere il capo di «Mafia Capitale».
Anche Denaro fu un militante delle organizzazioni neofasciste di fine anni Settanta, e quel giorno parlò con un altro camerata dell’epoca, Egidio Giuliani. «Telefonavo per sapere quando era la festa di nonna», disse. Giuliani rispose che era prevista «per il 26, io però vengo due giorni prima». Denaro annunciò: «Ho rimediato anche… tutti i regalini che tu mi avevi…». E Giuliani: «Bravo, bravissimo… Ciao bello». Riletta oggi, questa intercettazione si incastra bene con il resto del mosaico composto dalle indagini della Squadra mobile di Roma, che ieri hanno portato all’arresto di cinque persone, inquisite per l’assassinio di Fanella. A cominciare da Denaro, 57 anni tra un mese, accusato di essere «uno degli artefici dell’azione criminale» insieme a Emanuele Macchi di Cellere, anche lui con un passato nelle bande armate dell’estrema destra, già detenuto per traffico di droga. Giuliani invece (considerato uno degli esecutori), era già entrato in galera a settembre. Altre tre persone sono sospettate di aver procurato l’automobile utilizzata per l’attentato.
Attraverso l’analisi dei tabulati di telefoni «dedicati» o intestati a ignari cittadini stranieri, gli investigatori guidati dal dirigente della Mobile Renato Cortese hanno ricostruito le mosse di Denaro e di Macchi Di Cellere, ritenuto «l’anello di congiunzione tra il gruppo romano di Denaro e il gruppo del nord di Giuliani».
Gli ultimi due si incontrarono nella capitale non il 25 giugno, stesso giorno in cui Giuliani vide anche Macchi, all’epoca agli arresti domiciliari. Contatti e appuntamenti proseguirono nei giorni precedenti al delitto, avvenuto il 3 luglio, e poi nelle settimane successive, anche per organizzare la fuga all’estero di Giuliani e Macchi. Quanto al movente del rapimento sfociato nell’omicidio per la reazione imprevista di Fanella, è ancora l’inchiesta su «Mafia Capitale» a fornire una possibile chiave di lettura.
Anche Denaro era imputato nel processo sulla truffa organizzata da Mokbel, ma a differenza di quest’ultimo ne era uscito assolto (come Fanella, ritenuto il «cassiere contabile» del gruppo Mokbel).
Il giorno dopo la sentenza, Carminati la commenta con un interlocutore e riferendosi a un presunto debito di Denaro nei confronti di Mokbel dice: «No glieli darà mai… Manlio gli sputa in faccia a Gennaro… gli dice “cosa vuoi?”… questo è un altro pezzo di… questo è peggio di quell’altro è… dopo un po’ uno se le scorda le cose».
Secondo il giudice che ha ordinato gli arresti, se come svela Carminati c’erano «pregressi contrasti tra Mokbel e Denaro legati a motivi prevalentemente economici» il motivo del sequestro era la necessità di Denaro di «mettere le mani sul “tesoretto” di Mokbel & co».
A questa operazione avrebbe collaborato «Lele» Macchi Di Cellere, reclutando Giuliani, che a sua volta arruolò il «giovane» Ceniti e l’ex detenuto comune Giuseppe Larosa. Indizi a suo carico, oltre che dai telefoni, emergono dalle registrazioni effettuate dalla polizia dei colloqui con lo stesso Giuliani e con la moglie nel carcere dove era stato riportato dopo l’evasione dai domiciliari. Nel corso delle quali la donna, parlando di indagini in corso che «terrorizzano» tutti, fa anche un ipotetico cenno a Carminati «il Cecato» coprendosi un occhio con la mano.
Saputo della cattura di Giuliani, Macchi chiede preoccupato se sui giornali «è scritto come sono arrivati», e si sente abbandonato dai suoi stessi difensori. Evocando una regia esterna: «Io penso che veramente è un complotto, pure a loro gliel’hanno ordinato quelli là di Mokbel a farla questa cosa qua… e che a tutta sta gente non gliene frega un c… di Egidio o di me… salvano il culo loro e… abbiamo sbagliato tutto io e lui».
A unire i destini di questi personaggi coinvolti nelle inchieste sul malaffare romano è ancora una volta il filo nero della militanza neofascista che li legava trenta e più anni fa.
Ma adesso Macchi Di Cellere sembra stanco di entrambi i passati: «Questo fallimento qui per me è l’ultimo — confida alla moglie — io non darò più retta a nessuno, faccio io quello che devo fà, ho fatto già troppo…».
Giovanni Bianconi
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