La Rivoluzione Verde, termine coniato per indicare un processo basato sull’innovazione tecnologica applicata all’agricoltura il cui inizio si fa risalire alla seconda metà degli Anni 40, ha mostrato nel lungo periodo i suoi fallimenti. Le stime delle Nazioni Unite, infatti, mostrano che oggi ancora una persona su otto soffre la fame, e, nonostante le statistiche in questo senso mostrino un considerevole miglioramento dai primi Anni 90, si tratta ancora di un livello inaccettabile.
La promessa di avere cibo sicuro, abbondante e nutrizionalmente adeguato per tutti, quindi, è stata disattesa. Tale fallimento, evidente a decenni di distanza dall’avvio del processo di innovazione che avrebbe dovuto affrancare l’umanità dalla fame, è nelle assunzioni sulle quali è stato basato, secondo cui abbondanti risorse idriche ed energia a basso costo sarebbero sempre state disponibili a supportare l’agricoltura moderna nel quadro di un clima stabile.
I dati sullo stato dell’agricoltura mondiale mostrano invece criticità nuove, con cui il settore agricolo non si era ancora misurato. In alcune delle maggiori aree a vocazione cerealicola il tasso di incremento delle rese delle colture sta diminuendo sensibilmente, in quanto si è ormai quasi raggiunto il limite della massima resa ottenibile. I sistemi agricoli sono profondamente cambiati nella loro struttura e, principalmente a causa della mancanza di meccanismi di regolazione ecologica, le monocolture basate su una alta dipendenza dall’utilizzo di pesticidi hanno preso il sopravvento. L’impiego di sostanze chimiche negli ultimi 50 anni è aumentato in maniera drastica fino a raggiungere le 2,6 milioni di tonnellate all’anno, con un giro di affari su scala globale pari a oltre 25 miliardi di dollari americani.
Tornando ai numeri della fame mondiale di cui si è accennato, è importante riflettere sul fatto che quel miliardo di persone che ancora non ha accesso a cibo in quantità e qualità sufficiente per condurre una vita sana e attiva, non è in realtà legato a una mancanza di risorse. Globalmente, infatti, viene già prodotto cibo in quantità sufficiente da sfamare tra i nove e i dieci miliardi di persone, cifra che corrisponde al picco di popolazione previsto per il 2050. Il vero problema alla base di una ancora così ampia diffusione della fame nel mondo è la congiunzione di povertà e ineguaglianza che colpisce una porzione assai ampia della popolazione mondiale.
Appare quindi evidente e necessario che l’umanità elabori un nuovo e alternativo paradigma di sviluppo agricolo che promuova fortemente dei sistemi produttivi che siano ecologicamente fondati, altamente biodiversi, più resilienti e sostenibili, e inseriti in un quadro di maggiore giustizia sociale. La base per questi nuovi sistemi è tutt’altro che teorica e si ritrova nella miriade di sistemi agricoli fondati sui principi dell’ecologia realizzati e perpetrati da almeno il 75% degli 1,5 miliardi di piccoli proprietari terrieri, aziende a conduzione familiare e popolazioni indigene sparsi per il mondo. Il loro contributo alla produzione agricola mondiale è di inestimabile valore: nelle circa 350 milioni di piccole unità produttive che coltivano, producono non meno del 50% della produzione globale destinata al consumo domestico.
Da questi sistemi produttivi l’agroecologia trae il suo fondamento. L’agroecologia si basa su principi propri dell’ecologia che vengono applicati nella gestione sostenibile degli agroecosistemi attraverso la sostituzione degli input esterni con i processi che naturalmente alimentano un agroecosistema, quali, per dire, la fertilità del suolo e il controllo biologico delle specie che vi coabitano.
Motore di questo profondo cambiamento che l’agricoltura moderna dovrà intraprendere sono quindi i sistemi che traspongono nella pratica quella ricca e variegata conoscenza tradizionale basata su una profonda integrazione con l’ambiente. Determinante è stato il mantenimento di un’ampia diversità genetica e tecnica che ha consentito negli anni di costruire e mantenere sistemi stabili nel tempo. È soprattutto nei Paesi in via di sviluppo che risiede la maggior parte della popolazione contadina indigena depositaria di questo sapere. Dunque è proprio il Sud del mondo a detenere il maggiore potenziale agroecologico per produrre abbastanza cibo a livello globale procapite non solo per sfamare l’attuale popolazione, ma anche quella dei prossimi decenni.