Piccole manovre, finora, ma un dibattito sembra essersi aperto dentro l’élite europea. Mario Draghi è andato a Helsinki a spiegare che la moneta unica è intrinsecamente parte di una «costruzione politica», e come tale necessiterebbe di «trasferimenti fiscali permanenti». Per poi riconoscere che i trattati non li prevedono e che dunque spetta alla finanza il compito di redistribuire le risorse all’interno dell’eurozona. Una sfida esplicita ai falchi tedeschi, olandesi e finlandesi, ma che rischia ancora una volta di tradursi in piccoli passi in continuità con lo status quo. Quello che manca è un’azione politica di governi, partiti, movimenti per aprire un varco nel muro dell’austerità. E invece i paesi della periferia e dintorni continuano ad accettare le imposizioni della Troika (Grecia e Portogallo), avallare ossequiosamente Bruxelles (l’Italia) o a chiedere «più tempo» per la riduzione del deficit (la Francia), senza metterne in discussione la logica. A prescindere dalle responsabilità nazionali, il normale funzionamento delle istituzioni dell’eurozona non riuscirà ad evitare una depressione di lungo periodo e una possibile implosione dell’area euro. Da qui la forza dei populismi reazionari anti-europei che – dall’Ukip di David Farage, al Front national di Marine Le Pen, alla Lega di Matteo Salvini, col sostegno anche di Putin – influenzeranno sempre più l’agenda europea.
La vera spaccatura oggi in Europa è tra coloro che in nome della responsabilità invocano il rispetto delle regole con minime correzioni – le forze di centrodestra e centrosinistra che hanno votato Juncker — e coloro che si rendono conto che l’unico modo per evitare una devastante depressione – e conseguentemente la dissoluzione dell’Unione monetaria – è una rottura radicale di quelle regole: un atto di insubordinazione che imponga alla Germania e agli altri paesi del centro l’inevitabile revisione dell’architettura dell’Unione.