Fumo a Bruxelles

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La situa­zione dell’Europa è sem­pre più para­dos­sale. Di fronte alla crisi più dram­ma­tica che l’Ue abbia mai attra­ver­sato, non si parla altro che di cre­scita, inve­sti­menti, occu­pa­zione; dall’altro lato, si difende stre­nua­mente l’attuale assetto dell’Unione mone­ta­ria, che rende strut­tu­ral­mente irrag­giun­gi­bili que­gli obiet­tivi. Agli stati mem­bri viene chie­sto di insi­stere sulla strada dell’austerità e delle riforme strut­tu­rali – la causa prin­ci­pale della crisi in corso – in cam­bio di pre­sunte misure fede­rali che dovreb­bero con­tro­bi­lan­ciarne gli effetti restrit­tivi. Ma le misure a livello euro­peo non si avvi­ci­nano nean­che lon­ta­na­mente a quello sti­molo fiscale e mone­ta­rio di cui ci sarebbe biso­gno per tra­sci­nare l’Europa fuori dalla depres­sione, dalla defla­zione e dalla disoc­cu­pa­zione di massa. Anzi, sem­brano essere sem­pli­ce­mente «una scusa per con­ti­nuare a por­tare avanti le poli­ti­che di auste­rità», come ha dichia­rato l’autorevole eco­no­mi­sta Char­les Wyplosz. L’esempio più lam­pante è il «risi­bile» (parola dell’Economist) piano di inve­sti­menti di Junc­ker, che si affida a un mira­co­loso «effetto leva» per tra­sfor­mare, come per magia, 20 miliardi di fondi euro­pei (una goc­cia nell’oceano) in più di 300 miliardi di inve­sti­menti. Un altro caso è il «Piano euro­peo per Fran­cia e Ger­ma­nia» pro­po­sto dagli esperti gover­na­tivi Hen­rik Ender­lein e Jean Pisani-Ferry, dove ci sono buone inten­zioni ma nes­sun impe­gno con­creto. Tutto il con­tra­rio, ad esem­pio, del piano d’investimenti per un’Europa soste­ni­bile pro­po­sto in que­sti giorni dal Gruppo Verde del Par­la­mento euro­peo.

Pic­cole mano­vre, finora, ma un dibat­tito sem­bra essersi aperto den­tro l’élite euro­pea. Mario Dra­ghi è andato a Hel­sinki a spie­gare che la moneta unica è intrin­se­ca­mente parte di una «costru­zione poli­tica», e come tale neces­si­te­rebbe di «tra­sfe­ri­menti fiscali per­ma­nenti». Per poi rico­no­scere che i trat­tati non li pre­ve­dono e che dun­que spetta alla finanza il com­pito di redi­stri­buire le risorse all’interno dell’eurozona. Una sfida espli­cita ai fal­chi tede­schi, olan­desi e fin­lan­desi, ma che rischia ancora una volta di tra­dursi in pic­coli passi in con­ti­nuità con lo sta­tus quo. Quello che manca è un’azione poli­tica di governi, par­titi, movi­menti per aprire un varco nel muro dell’austerità. E invece i paesi della peri­fe­ria e din­torni con­ti­nuano ad accet­tare le impo­si­zioni della Troika (Gre­cia e Por­to­gallo), aval­lare osse­quio­sa­mente Bru­xel­les (l’Italia) o a chie­dere «più tempo» per la ridu­zione del defi­cit (la Fran­cia), senza met­terne in discus­sione la logica. A pre­scin­dere dalle respon­sa­bi­lità nazio­nali, il nor­male fun­zio­na­mento delle isti­tu­zioni dell’eurozona non riu­scirà ad evi­tare una depres­sione di lungo periodo e una pos­si­bile implo­sione dell’area euro. Da qui la forza dei popu­li­smi rea­zio­nari anti-europei che – dall’Ukip di David Farage, al Front natio­nal di Marine Le Pen, alla Lega di Mat­teo Sal­vini, col soste­gno anche di Putin – influen­ze­ranno sem­pre più l’agenda euro­pea.
La vera spac­ca­tura oggi in Europa è tra coloro che in nome della respon­sa­bi­lità invo­cano il rispetto delle regole con minime cor­re­zioni – le forze di cen­tro­de­stra e cen­tro­si­ni­stra che hanno votato Junc­ker — e coloro che si ren­dono conto che l’unico modo per evi­tare una deva­stante depres­sione – e con­se­guen­te­mente la dis­so­lu­zione dell’Unione mone­ta­ria – è una rot­tura radi­cale di quelle regole: un atto di insu­bor­di­na­zione che imponga alla Ger­ma­nia e agli altri paesi del cen­tro l’inevitabile revi­sione dell’architettura dell’Unione.



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