Flessibilità e niente austerity ecco la “lezione americana”

by redazione | 24 Dicembre 2014 9:19

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UN REGALO di Natale arriva dall’America. Il 5% di crescita del Pil Usa è la lieta novella di fine d’anno. Una notizia ottima, quasi per tutti. L’economia globale è un sistema di vasi comunicanti. L’accelerazione della ripresa nell’economia leader ha ripercussioni, in prevalenza positive, anche se non tutti sono pronti a cogliere questa opportunità. Ora inizia la conta: dei Paesi più preparati ad agganciarsi alla locomotiva americana. C’è anche qualche rischio, legato all’effetto di risucchio dei capitali che dal resto del mondo affluiscono verso Wall Street.
Il dato rivisto al rialzo per il terzo trimestre del Pil Usa è una magnifica conferma. L’America entra nel sesto anno consecutivo di ripresa, cancellando buona parte dei danni economici e sociali inflitti dal crac sistemico del 2008. Non era scontato. Quella del 2008 non fu una recessione “normale”. Una crisi provocata dal collasso di un pezzo di sistema bancario, con il crac di Lehman Brothers, è un trauma diverso da altre recessioni cicliche. Le ferite stremarono la fiducia dei consumatori; i licenziamenti colpirono nove milioni di lavoratori. E infatti all’inizio la ripresa fu asfittica, malaticcia. Tecnicamente la recessione americana ebbe durata breve, la sua fine ufficiale fu decretata a metà del 2009. Nei fatti però la ripresa non veniva percepita come tale. Si parlò nei primi anni di una “jobless recovery”, ripresa senza posti di lavoro, perché il ritmo di riassorbimento dei disoccupati era lento. Poi le assunzioni accelerarono fino a raggiungere una velocità di crociera superiore ai 200.000 nuovi posti al mese. Ma restava un’ombra. Si parlò di “raise-less recovery”. Ripresa senza aumenti di stipendio. E’ la spiegazione dell’impopolarità di Obama. Un presidente con un’economia così florida, in qualsiasi Paese europeo sarebbe considerato un guaritore mi-racoloso. E invece il partito di Obama ha perso le elezioni legislative. Il presidente stesso non supera il 40% di consensi. La ragione: per quanto il mercato del lavoro abbia registrato più di dieci milioni di assunzioni dal 2009, il potere d’acquisto delle famiglie è quasi immobile. Le aziende sono avare di aumenti salariali, se si eccettuano alcune aree privilegiate come l’economia digitale della Silicon Valley. Solo da un mese a questa parte, alla ripresa del Pil e dell’occupazione (+320mila posti a novembre) si è affiancata una dinamica salariale positiva. Le buste paga finalmente diventano un po’ più pesanti. E lo sembrano ancora di più, se agli aumenti retributivi si aggiunge “l’effetto-benzina”. Col petrolio che ha perso il 50% in sei mesi, in un paese dove la diminuzione del greggio si trasmette al consumatore, la famiglia media risparmia dai 350 ai 700 dollari all’anno.
L’America torna ad essere il “consumatore di ultima istanza”. La locomotiva importa di più. Ne trae vantaggio anche il made in Italy. L’accelerazione americana può forse compensare il deficit di domanda in altre parti del mondo. L’eurozona ha consumi depressi. La Cinarallenta e frena altre economie emergenti i cui boom erano legati all’export di materie prime verso il gigante asiatico. Opec e Russia soffrono il tracollo delle entrate petrolifere.
Dal vigore americano ci sono lezioni per tutti. L’America ha un’economia di mercato più elastica e reattiva di quelle europee. In quanto a “spirito d’intrapresa” gli Stati Uniti restano un modello, non a caso drenano talenti coi flussi d’immigrazione qualificata che arrivano dal mondo intero (e che Obama ha deciso d’incoraggiare ulteriormente). Il governo Renzi può trarne conferma che il Jobs Act con un’iniezione di flessibilità è una ricetta valida. Altre dosi di concorrenza dovrebbero investire aree sclerotizzate dell’economia italiana: dalle municipalizzate alle corporazioni professionali, alle baronìe universitarie.
L’intera eurozona però ha i due piedi pigiati sul pedale del freno. Il manuale su “come si esce dalla crisi”, applicato negli Stati Uniti, è l’esatto contrario di tutte le scelte compiute da cinque anni nell’eurozona. L’austerity è un ostacolo permanente alla crescita degli investimenti e dei consumi. Obama a suo tempo lasciò che il rapporto deficit/Pil esplodesse fino a quota 12%, il quadruplo dei limiti imposti dal patto di stabilità europeo. Oggi il deficit/Pil negli Usa è ridisceso al 2,5%. Non a furia di tagli ma grazie alla crescita. Altra differenza chiave è nelle politiche monetarie. La Federal Reserve ha creato liquidità comprando bond fino a 4.500 miliardi di dollari. Ha fatto in modo che il credito a buon mercato arrivasse all’economia reale, famiglie e imprese, invece di essere sequestrato dalle banche come avviene in Italia. Ha svalutato il dollaro a oltranza, finché ce n’era bisogno. Ora che l’emergenza è finita, la Fed torna alla normalità. E il dollaro risale, per nostra fortuna.
Non mancano le nuvole all’orizzonte. Oltre all’incapacità delle classi dirigenti dell’eurozona di riconoscere i propri errori, un allarme riguarda i paesi emergenti. Col dollaro forte e il petrolio a picco alcuni di loro – dalla Russia al Venezuela – subiscono emorragie di capitali e rischiano il default. La ritrovata forza dell’America è uno scossone negli equilibri mondiali. Se non è governato può produrre sconquassi.
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