Fallisce il raid dei Navy Seals Morti in Yemen i due ostaggi

by redazione | 7 Dicembre 2014 9:54

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NEW YORK Terza operazione di salvataggio di ostaggi americani fallita in pochi mesi da un team delle «Us Special Operations». Dopo la mancata liberazione, qualche mese fa, degli ostaggi Usa detenuti dall’Isis e un tentativo di liberare Luke Sommers andato a vuoto, il 24 novembre scorso, i Navy Seals hanno tentato una nuova missione, l’altra notte, per cercare di salvare il fotogiornalista americano. Stavolta i convertiplani V.22 Osprey, aerei capaci di atterrare come elicotteri ruotando le pale dei motori, sono atterrati a sette chilometri dal compound dove Somers e un altro ostaggio, il sudafricano Pierre Korkie, erano detenuti in una zona impervia dello Yemen, controllata dai guerriglieri sunniti che fanno capo al gruppo terrorista Aqap: Al Qaeda nella penisola arabica.
Il commando di 40 uomini ha cercato di prendere di sorpresa i guerriglieri ma, arrivati a meno di cento metri dall’obiettivo, i Seals sono stati traditi da un rumore, forse l’abbaiare di un cane, che ha messo sull’avviso i guardiani del nascondiglio degli ostaggi. È, così, iniziata una battaglia furibonda, durata mezz’ora. I terroristi hanno sparato a Somers e Korkie. I militari americani, tra i quali c’erano anche due medici, li hanno recuperati già morenti. I due sanitari hanno cercato di tamponare le ferite quando era ancora in corso lo scontro a fuoco. Nella battaglia sarebbero stati uccisi almeno sei combattenti di Al Qaeda, secondo fonti americane. Quelle locali parlano, invece, di due guerriglieri e di sei civili uccisi dai Seals. Uno dei due ostaggi è deceduto su uno degli Osprey usati per l’evacuazione. L’altro è stato dichiarato morto a bordo della Makin Island , una nave-appoggio per attacchi anfibi che incrociava al largo delle coste dello Yemen.
Barack Obama, che aveva autorizzato l’incursione, appena informato del suo insuccesso ha condannato quello che ha chiamato il «barbaro assassinio» degli ostaggi da parte dei terroristi, ha espresso il suo cordoglio alle famiglie di Somers e Korkie e ha sostenuto che con questa missione così impegnativa e complessa gli Stati Uniti hanno confermato la loro determinazione a fare tutto quanto nelle loro capacità «militari, di intelligence e diplomatiche» per riportare a casa gli ostaggi catturati da gruppi terroristi. Come dire che la Casa Bianca non ha alcuna intenzione di cambiare rotta sulla questione dei riscatti: rimane il divieto assoluto di pagarli cedendo al ricatto di queste bande. Ma l’insuccesso della notte scorsa potrebbe lasciare segni abbastanza profondi e non solo per la dolorosa circostanza del caso Korkie. Pierre, sequestrato nel maggio del 2013 assieme alla moglie Yolande, poi rilasciata dietro pagamento di un riscatto, stava per essere liberato anche lui. «Gift of the Givers», l’organizzazione umanitaria sudafricana che aveva ottenuto la liberazione di Yolande, aveva appena comunicato alla moglie che aveva pagato un altro riscatto.
I portavoce del Pentagono hanno detto che il commando non conosceva l’identità dell’ostaggio che era insieme a Somers ed hanno escluso che i due siano stati uccisi da «fuoco amico». Ma il terzo insuccesso consecutivo delle squadra speciali solleva interrogativi sull’efficacia di questo tipo di incursioni. Ormai è lontana la memoria dell’operazione trionfale del 2011 con la quale i Seals eliminarono Bin Laden. Oltre ai dubbi sull’impiego di questi commando, potrebbero tornare le polemiche sui tempi delle incursioni e sui rapporti tra presidente e militari. A novembre c’erano state voci di dubbi di Obama che avrebbe aspettato qualche giorno prima di approvare il blitz proposto dal Pentagono. La Casa Bianca ha smentito. Ma quando gli incursori raggiunsero la prigione, con tre giorni di ritardo, Somers non c’era più.
Massimo Gaggi
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