Erdogan arresta i giornalisti l’ultima sfida del Sultano
by redazione | 15 Dicembre 2014 8:35
UNA retata di giornalisti e poliziotti è una malefatta enorme. Erdogan sa quello che fa, senza di che non sarebbe al potere da un’eternità grazie ai successi elettorali, l’ultimo dei quali l’ha investito a mani basse di una presidenza sultanesca.
DUNQUE la retata di giornalisti ha un fine interno, far fuori la principale opposizione organizzata, legata a Fethullah Gülen, e uno esterno, ostentare la più soddisfatta strafottenza nei confronti dell’Unione Europea. I pareri sul rapporto fra Turchia e Unione Europea si mordono la coda: gli uni trovano in ogni nuovo sproposito di Erdogan la conferma che accogliere la Turchia nell’Unione era una pazzia, gli altri, più ragionevolmente e inutilmente, rimpiangono che un’accoglienza della Turchia nell’Unione non abbia sventato una simile deriva di spropositi. Ci fu un tempo, ormai lontano, in cui la lunga mano dei militari sullo Stato e la società turchi ne garantiva la laicità: si poteva provare perfino una cauta simpatia per l’Erdogan genitore che mandava le sue figlie a studiare in Europa perché all’università di Istanbul non si entrava a capo coperto. I militari, e la loro laicità a democrazia limitata, sono stati congedati con le brutte (e con l’appoggio provvisorio di Gülen), magistratura e polizia epurate e asservite, e l’uguaglianza fra uomo e donna dichiarata da Erdogan, nel suo penultimo sproposito, «contraria alla natura umana». La natura femminile, ha precisato gentilmente, è «delicata».
La Turchia è davvero un grande paese, e gioca un ruolo primario in uno scacchiere delirante. I turchi sono sunniti e non sono arabi, gli iraniani non sono arabi e sono sciiti, gli egiziani e i sauditi sono arabi e sunniti, gli iracheni sciiti e sunniti, i siriani alawiti in cima e sunniti in basso… Con un simile mosaico andato in pezzi, la Turchia fa sempre di più da sé. Decisiva com’era per la Nato, è ormai, se non disertora, del tutto renitente. Ha rotto con Israele (che, incautamente, ruppe con lei). È in affari di gasdotti con la Russia da una parte e il Kurdistan dall’altra: quello iracheno, perché i curdi suoi e quelli di Kobane li preferisce morti. Vuole la fine di Assad, apprezzabile desiderio, per il quale ha però ceduto al transito di fior di invasati dalle proprie frontiere. Celebra ancora pomposamente la memoria di Atatürk, ma reintroduce lingua e grafia turco ottomano, misura largamente simbolica, osteggia le classi miste, misura assai reale, chiede tre figli per donna e deplora l’aborto perché, ha detto il sindaco di Ankara, la colpa è delle madri, e allora si ammazzino loro.
La Turchia ha tuttavia una società vivace, colta e coraggiosa, soprattutto nelle grandi città, di cui un’indipendenza dei mezzi di comunicazione è la condizione decisiva. Quello che è successo ieri, quando un primo tentativo di arrestare il caporedattore del quotidiano Zaman è stato sventato dalla gente radunatasi a sua difesa, ma è riuscito più tardi, descrive esemplarmente questa duplicità: la società libera, e la forza soverchiante dello Stato, come a Gezi Park. Gli attacchi alla stampa, il bavaglio alla Rete, la sospensione di Twitter, non vi sono nuovi, benché lo spiegamento di ieri abbia voluto essere inauditamente spettacoloso. Nell’aprile scorso fu licenziata in tronco dal quotidiano Sabah la corrispondente Yasemin Taskin, poche ore dopo che Repubblica aveva pubblicato un’intervista con Gülen di Marco Ansaldo, che di Yasemin è marito. Il secondo licenziamento, per lei: anni prima Ansaldo aveva intervistato anche Abdullah Öcalan… Nei giorni scorsi la Turchia ha ospitato il papa Francesco, poi il presidente italiano Renzi. Non si può certo pretendere che il capo della Chiesa cattolica, o le autorità europee, e ancor meno le italiane, taglino i ponti con gli Stati poco in regola con la libertà (sarebbe seccante sentirsi replicare da qualche lapidatore che chi è senza peccato eccetera). L’Europa, il po’ di fiato che le resta, dovrebbe soffiarlo nelle orecchie di un governo amico che fa retate di giornalisti. Quanto all’Italia e al suo capo del governo, si può formulare un’osservazione laterale. Si va a Istanbul, a farsi la foto con Erdogan, si sta a Roma, a farsene una con il presidente egiziano al Sisi: alleato essenziale, s’intende, uno che però ha visto con favore che i militari sottoponessero a un esame medico le manifestanti di piazza Tahrir per accertarne la verginità, e che il giorno prima della retata di giornalisti turchi ha fatto filmare da una ligia giornalista egiziana una vasta retata di gay “sorpresi” in un loro locale. E così via. L’osservazione riguarda la Grecia, dove forse Alexis Tsipras, il leader di Syriza, un ulivo piuttosto di sinistra, diciamo, sta per vincere le elezioni e accollarsi la responsabilità del governo. Quando diventasse primo ministro, bisognerebbe andare anche da lui, o riceverlo, farsi la foto eccetera. Tsipras non vuole chiudere giornali né fare retate di gay: rinegoziare il debito sì, intenzione che appare maleducatissima alle autorità europee e anche italiane (Padoan ha appena detto che non se ne parla), ma che è dopotutto un’opinione amichevolmente discutibile. Non c’è uno strano squilibrio fra i compromessi con regimi dispotici cui la diplomazia obbliga, e la distanza tenuta nei confronti di colleghi politici di nazioni davvero sorelle? Una volta eletto, Tsipras pelerà le stesse gatte che stanno pelando Renzi, il quale forse aveva pensato di essere diverso, di entrare da beniamino nel famoso consesso europeo. Si è già capito di no. Bene: la politica mondiale, cioè la politica, è oggi quel che è. C’è uno che vuole restaurare l’impero zarista, un altro l’impero ottomano, un terzo che ha rifondato il califfato, e così via. O ci si allarma per loro e si chiama un’ambulanza, o ci si allarma per noi, e si corre ai ripari. Ma noi tutt’al più restauriamo i re di Roma: ne contiamo già quattro, ancora uno sforzo e arriviamo a sette.