Ma il nodo centrale — per gli imputati, che rischiavano dieci anni e più di carcere, e per il Movimento No Tav, criminalizzato da questa vicenda nella sua interezza — era l’attentato con finalità di terrorismo. Già la Cassazione, il 15 maggio, aveva smontato, nel giudizio cautelare, l’imputazione. Ma i pubblici ministeri avevano insistito: anche con la richiesta, nei giorni scorsi, di una nuova misura cautelare con la stessa imputazione nei confronti di altri tre imputati, regolarmente emessa dal gip. Per questo la sentenza della corte d’assise, composta – è bene sottolinearlo – anche da giudici popolari (un pezzo di popolo italiano), è importante.
Il fatto contestato consiste, come noto, in un «assalto» al cantiere della Maddalena realizzato da una ventina di persone nel corso del quale alcuni componenti del gruppo avevano incendiato un compressore mentre gli altri ostacolavano l’intervento delle forze di polizia con il lancio di sassi e di «artifici esplosivi e incendiari». I pubblici ministeri hanno motivato la contestazione di terrorismo, da un lato, con l’asserita attitudine del gesto a intimidire la popolazione e/o a costringere i poteri pubblici ad astenersi dalle attività necessarie per realizzare la nuova linea ferroviaria e, dall’altro, con l’affermata idoneità del fatto ad arrecare un grave danno al Paese («è indubbio che azioni violente come quella della notte di maggio arrechino un grave danno al Paese quanto all’immagine – in ambito europeo – di partner affidabile». Evidente l’evocazione della categoria del terrorismo non per riconoscere reati contrassegnati da caratteristiche specifiche ma per stigmatizzare fatti ritenuti di particolare gravità e, per questo, meritevoli di più intensa riprovazione sociale. Ché la connotazione terroristica di un atto – secondo il comune sentire e una giurisprudenza consolidata – ha necessariamente a che fare col sovvertimento dell’assetto democratico dello Stato e con la destabilizzazione dei pubblici poteri mentre l’affermazione secondo cui la mancata realizzazione di una linea ferroviaria comporterebbe «un grave danno per il Paese» e per la «sua immagine di partner europeo affidabile» sfiora il grottesco. Eppure l’operazione era stata avallata anche dai giudici della cautela e salutata in termini trionfalistici da tutta la grande stampa. Forse per l’autorevolezza della Procura torinese, che non aveva mancato di supportare l’iniziativa con termini enfatici che evocavano addirittura la guerra. Certo per la progressiva caduta nel nostro Paese, con riferimento al conflitto sociale, della cultura delle garanzie, accompagnata dalla costruzione, legislativa e giurisprudenziale, di una sorta di diritto penale del nemico in cui quest’ultimo va perseguito, senza esclusione di colpi, per quel che è più ancora che per le sue azioni specifiche. A contrastare la deriva sono stati in pochi a fianco del Movimento No Tav (capace, da parte sua, di reggere lo scontro anche quando è parso che ad essere messa sul banco degli imputati fosse la stessa opposizione alla linea ferroviaria Torino-Lione).
Oggi è intervenuto un segnale nuovo. C’è un giudice a Torino! Un giudice consapevole che il proprio compito è – secondo una autorevole definizione – «assolvere in assenza di prove anche quando l’opinione pubblica vuole la condanna e condannare in presenza di prove anche quando l’opinione pubblica vuole l’assoluzione». Non è poca cosa. Ed è auspicabile che aiuti a comprendere che quella del Tav è una grande questione politica irrisolta e non una questione di ordine pubblico.