Tra le forme di ineguaglianza sociale c’è anche quella tecnologica. La prima e più nota forma di digital divide è quella geografica: la distanza, cioè, che separa i Paesi che hanno accesso a Internet veloce da quelli che non l’hanno. Secondo l’ultimo Ict Development Index, che classifica i Paesi in base alla dotazione e alla competenza digitale, l’Italia si piazza solo al trentaseiesimo posto, dietro a Paesi come Emirati Arabi, Qatar e Barbados. La Danimarca supera la Corea del Sud come Paese più connesso del mondo.
Una lettura attenta dei dati mostra però che, in realtà, il digital divide ha molte facce. Una è la dicotomia classica Paesi ricchi-Paesi poveri. Certo, Internet cresce ormai rapidamente in tutto il mondo, con 3 miliardi di persone online . Nel 2013 la diffusione del web è aumentata dell’8,7% anche nei Paesi in via di sviluppo, in cui vive il 90% delle persone prive di accesso alla Rete. Tuttavia le differenze Nord-Sud restano profonde.
Grandi sono poi le disparità tra i Paesi più avanzati (ad esempio tra Scandinavia e Italia) ma anche all’interno dei singoli Paesi: un esempio clamoroso di digital divide è il fossato che separa le zone urbane e metropolitane dalle aree montane e rurali degli Stati Uniti. Tanto profondo da alimentare il già diffuso disincanto degli elettori verso l’amministrazione Obama.
Ma non meno drammatiche sono le distanze culturali nel «mondo avanzato». Questo secondo digital divide è particolarmente accentuato in Italia, dove molto poco, finora, è stato fatto per contrastare il fenomeno. Sul quale pesa di certo l’inadeguatezza dell’attrezzatura tecnologica ma che, a sua volta, genera un’insufficiente domanda di nuovi servizi digitali. Scarsa, ad esempio, è la pressione esercitata dall’opinione pubblica sullo Stato per ottenere buone forme di egovernment , cioè di burocrazia digitale chiara e comprensibile. Una parte dei cittadini preferisce la coda allo sportello all’impaccio davanti al computer.
Da un lato c’è il divario generazionale tra i nativi digitali e le persone più anziane. L’«alfabetizzazione tecnologica», tante volte invocata, non è mai stata neppure tentata in modo serio e su vasta scala. Il servizio pubblico radiotelevisivo, cui forse sarebbe spettato il compito di realizzare un’iniziativa del calibro di «Non è mai troppo tardi», aggiornata all’era digitale, non ha dedicato al tema un impegno adeguato. Nei Paesi scandinavi, al contrario, la semplificazione amministrativa è passata attraverso un’educazione all’ egovernment che ha coinvolto simmetricamente gli impiegati pubblici e gli utenti.
C’è infine, più nascosto ma non meno cruciale, un terzo tipo di digital divide , ed è quello nel mondo giovanile. In questa parte della società esistono le distanze forse più grandi e, in prospettiva, più importanti. Una delle rappresentazioni più in voga è quella dei ragazzi «tutti uguali», intontiti, curvi sullo smartphone , presi a scambiarsi informazioni irrilevanti sui social network . Peccato sia anche una delle più rozze e false.
Anche il mondo giovanile si sta, al contrario, polarizzando: da una parte ci sono, effettivamente, i giovani «schiavi» delle tecnologie della comunicazione, quelli che se ne fanno dominare, poco abili a gestire il proprio tempo, privi di «disciplina mediatica». Dall’altra però emerge un tipo di giovani che della tecnologia fa un uso attento e maturo, integra vecchi e nuovi media, ama la lettura, usa i mezzi a disposizione per un progetto di crescita. Il loro profilo, c’è da scommettere, coincide con quello dei giovani che trovano lavoro, in Italia o all’estero, oppure riescono a crearlo. Forse non sono la maggioranza ma l’esperienza quotidiana ci insegna che non sono pochi.
Un buon progetto culturale (e occupazionale) per l’Italia non può prescindere, in partenza, da una comprensione e da una valorizzazione del ruolo di questi giovani attrezzati: senza dimenticare i loro coetanei meno bravi.