Communia. Dove tutto è di tutti
Le sette di sera si attardano nell’androne principale che pullula di studenti, insegnanti precari e ricercatori. «Dobbiamo rovesciare le narrazioni tossiche del governo, ribaltarne il senso, proponendo un’alternativa reale che parta dai nostri bisogni, dalle nostre necessità, mettendo in discussione la logica dei diritti a ribasso, l’ineluttabilità della precarietà, l’uso privatistico di scuola e università», incalza Danilo, precario e docente. E poi Federica, studentessa di Lettere: «Abbiamo oggi la necessità di ripensare gli strumenti e le pratiche del nostro agire politico quotidiano, di ragionare sulla ricostituzione di un terreno in cui sia possibile l’attivazione di percorsi di autorganizzazione nei nostri atenei e nelle nostre scuole, dentro e fuori i luoghi del lavoro».
Lo stanzone riluce del chiarore di un pomeriggio che lentamente spira. Probabilmente una vecchia rimessa, con il pavimento a mattoncini rossi screziati e il tufo delle pareti. All’esterno tre capannoni accatastati. Un cancello rosso all’entrata, l’insegna raffazzonata recita « Communia ». Il volto di Thomas Muntzer su una saracinesca: bomboletta spray su ferro arrugginito, con un tocco di eleganza queer, labbra livide e arrossate.
«Abbiamo lavorato giorno e notte, senza tregua per restituire al quartiere uno stabile abbandonato da troppo tempo». La vernice fresca, righe viola su colate bianche. Tom traffica con alcune travi di legno. «Questo a breve sarà il bar», spiega indicando lo stanzone a sinistra, quello subito dopo il viottolo. «Tentiamo di riqualificare uno spazio, strappandolo alla speculazione edilizia», borbotta, inforcando gli occhiali sudici di polvere.
«Vogliamo creare uno spazio di mutuo soccorso, un luogo in cui condividere esperienze, creare legami di solidarietà. Il nostro intento — continua — è intelaiare una rete tra conflitti che, oltre a costruire sacche di resistenza, propone una rottura con il sistema attuale. La parola d’ordine: sperimentare». Guarda poi i divani all’angolo. «Gentile concessione della signora del palazzo accanto». Panche e sedie, armadietti rimediati, tavoli e mensole, «come se il quartiere ci avesse dato il benvenuto».
Lo spazio di mutuo soccorso Communia nasce a Roma il 7 aprile 2013. «All’inizio abbiamo portato le nostre idee a via dei Peligni, denunciando il pericolo dell’amianto che ricopre ancora il tetto del capannone alla fine della via — racconta Giovanna, precaria della scuola -, abbiamo sviluppato poi il progetto occupando per quattro mesi le ex fonderie Bastianelli in via dei Sabelli, patrimonio storico e architettonico della città. Il 16 agosto però — prosegue Giovanna abbozzando un ghigno, mentre Tom cincischia con dei chiodi — in una Roma deserta, la polizia ci sgombera. La Sabelli Trading prende possesso dei locali e dopo nove mesi demolisce tutto». Il 7 settembre 2013 «centinaia di persone, una fiumana di gente in corteo, giunge all’interno delle ex officine Piaggio» in via Scalo di San Lorenzo 33».
Tommaso spiega che «lo spazio si presta all’immaginazione: vive attraverso lo sport e la scuola popolare, con corsi d’inglese, tedesco e di lingua italiana per stranieri, gli sportelli legali e psicologici, i gruppi di acquisto solidale a sfruttamento zero. Abbiamo ospitato un festival di letteratura — aggiunge -, iniziative culturali e spettacoli teatrali».
Teli rossi piovono dal soffitto di una stanza — «l’aula studio autogestita», spiega Tommaso — su banchi, banconi e seggiole di legno; libri che penzolano dagli scaffali, etichettati, schedati, illuminati da luci perlacee che ballonzolano per le nervature del tetto; mensole e cassetti, fotocopie spillate, le dispense di Filologia romanza, di Storia medievale e di Diritto pubblico, un vocabolario su una mensola, penne e pennarelli. Uno striscione, tessuto nero e chiazze verdi: «Scuola e Università fuori Mercato, la vostra meritocrazia è austerità e precariato». Chi rimugina sulla tastiera del computer, chi legge e chi smanetta un foglio di carta con equazioni e formule, la matita spuntata, calcoli che non tornano.
«Trovare una biblioteca aperta tutto il giorno è un’impresa impossibile, specialmente alla Sapienza: orari ridicoli, pochi posti, uno sopra all’altro, centellinando i secondi, contando i centimetri, reclusi in gabbia», si lamenta una studentessa che ha scoperto l’aula passeggiando per i corridoi della facoltà di Fisica, leggendo un manifesto che riportava «Sharewood è un progetto in continua costruzione, file-sharing, biblioteca, copisteria popolare, aperta tutto il giorno, tutti i giorni, tutte le settimane».
«Questo è uno spazio dove incontrarsi, confrontarsi — prosegue — in un’epoca in cui essere studentessa e studente significa vivere una vita precaria, frammentata, divisa tra mille lavori per pagare le tasse, l’affitto e mille altre spese». «Vogliamo riaprire le nostre aule, le nostre biblioteche, gli spazi abbandonati, equilibrare i nostri tempi di studio, discutere e immaginare insieme un’altra università» sussurra, per non disturbare, Giulia, studentessa di Filosofia. Un altro, grattandosi la testa, aggiunge: «Qui possiamo studiare, impartire ripetizioni, acquistare, vendere e scambiare libri, condividere dispense e documenti, senza rendere conto a nessuno, senza pagare pegno alle grandi case editrici o alle penne striminzite dei baroni universitari».
La caffettiera stride sul fornelletto a gas. Sul tavolo un giornale spiegazzato sul quale si legge: «La legge di Stabilità appena varata dal governo Renzi promuove una serie di misure sul fronte dell’istruzione. I tagli a scuola e università, considerando tutte le voci, arrivano a quota 615 milioni di euro a fronte di oltre un miliardo di stanziamenti sul 2015». E una decina di righe più in là: «Sul Fondo di finanziamento ordinario delle università italiane vengono messi 150 milioni e si stabilizzano anche per il prossimo anno risorse finora oscillanti. Gli studenti organizzati spiegano, però, che con i tagli alle Regioni saltano 150 milioni che le Regioni avrebbero destinato alle borse di studio universitarie per gli aventi diritto».
L’ultima stanza a destra: un piccolo sipario addobbato e una pedana in legno. Al centro della platea, file di sedie, una dietro l’altra, una scala su cui è seduta una ragazza che legge ad alta voce un copione: pantaloni neri, giacca e colletto della camicia sbottonati. Strimpellata elettrica di getto, frastuono assordante: microfoni, casse e mixer funzionano. Le prove per uno spettacolo teatrale. Tutte donne nella stanza. Una di loro mostra un volantino: «Siamo studentesse, precarie, donne, lesbiche, lavoratrici, disoccupate. Siamo un collettivo. Degender Communia è il nome che abbiamo scelto perché pensiamo che il genere sia una costruzione sociale e non un dato determinato dal sesso biologico. Ci riuniamo separatamente — prosegue — perché crediamo che sia fondamentale per la nostra autodeterminazione, ma non rinunciamo alla sfida dei luoghi misti, che attraversiamo, contaminiamo, stravolgiamo». Fatima, ultimo anno della triennale in Antropologia: «Adesso stiamo riadattando alcuni testi teatrali rivoltandoli completamente: interpretiamo la realtà sociale con chiavi di lettura che mettono al centro la questione di genere, le sue rivendicazioni, le complesse relazioni che esistono al suo interno». Battute, scambi repentini, intermezzi musicali che accompagnano le fisionomie accigliate, i completi neri, completamente anonimi, mescolano sulla scena arte e politica. «Io non ho la possibilità di prefigurare un futuro in questo mondo. Conquisto i miei diritti e affermo me stessa lottando. Dal momento che il mio corpo non è nient’altro che pura fisicità, prono al tiranno della produzione e del consumo alienante, dato che il mercato gestisce i miei tempi, che lo spread scandisce le mie giornate con alti e bassi, non ho nulla da perdere nell’oppormi radicalmente a tutto questo». Le prove continuano fino a tarda notte.
La sera è piombo fuso sulle strade del quartiere. Alla spicciolata qualcuno esce, salutando calorosamente, altri rimangono, rassettando l’androne con scopa e paletta. Le luci si spengono.
Claudia, capelli rossicci, zaino a tracolla e un libro tra le braccia, studentessa universitaria, fissa la saracinesca con il faccione imbellettato di Thomas Muntzer. La domanda è lecita. Perché proprio lui? «Thomas Muntzer fu un eretico — risponde senza voltarsi -, un pastore protestante, un teologo inviso ai potenti. Soprattutto però fu un rivoluzionario. A capo dei ribelli nella guerra dei contadini, aveva compreso la necessità dell’insurrezione contro la nobiltà. In migliaia morirono in battaglia, contadini trucidati dai lanzichenecchi, città saccheggiate dalla furia dei principi. Così venne ristabilito l’ordine nella Germania del 1500. Alla fine Thomas Muntzer venne decapitato. Per secoli però nessuno dimenticò il suo grido di battaglia: omnia sunt communia. Tutto è di tutti».
Communia nasce il 7 aprile 2013 in via dei Peligni, alle porte del quartiere capitolino di San Lorenzo. Dopo il recupero e la riqualificazione del vecchio deposito, vengono occupate le ex fonderie Bastianelli in via dei Sabelli. Lo sgombero arriva il 16 agosto. Il 7 settembre le ex officine Piaggio in via Scalo di San Lorenzo 33 diventano la nuova casa. L’obiettivo è creare uno spazio in cui poter realizzare progetti di mutuo soccorso tra studenti, precari di ogni genere, lavoratori, abitanti del quartiere, uomini e donne, ricostruire una rete di rapporti di solidarietà e confronto. Communia è animata dall’aula studio Sharewood, da uno sportello legale e psicologico, con molteplici attività, dai gruppi di acquisto popolare a sfruttamento zero ai corsi di teatro, di lingua, di italiano per stranieri, dalla scuola allo sport popolare.
Related Articles
Il mito pericoloso del Grande Fratello
Il ministro della Giustizia italiano, che punta a estendere le intercettazioni ben oltre la telefonia mobile, fino a includere chat, videogiochi e piattaforme per scaricare musica
Sul web parte la rivolta dei militanti 5 stelle
Le accuse della base pentastellata: “Avete fatto un becero gioco politico”. Attacca il sindaco di Parma Pizzarotti: “Occasione sprecata”. Protesta delle associazioni gay. I senatori si difendono: “Non si calpesta la Costituzione”
I rivoluzionari di Suez
Reportage. In Egitto, tra gli operai di Suez protagonisti di scioperi e lotte. Che oggi, dopo la repressione, e con i leader sindacali in carcere, sono terrorizzati