Un anno e mezzo di spie e trattative così Usa e Cuba hanno fatto la pace

Un anno e mezzo di spie e trattative così Usa e Cuba hanno fatto la pace

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UNA frase “galeotta” di Barack Obama sei anni fa. 18 mesi di trattative ultrasegrete Usa-Cuba, in sedi clandestine. L’aiuto di diplomazie straniere e di papa Francesco. Infine l’accelerazione anche grazie al controshock petrolifero che ha stremato il Venezuela e prosciugato gli aiuti economici all’Avana. La storia del disgelo che ha riavvicinato gli acerrimi nemici della guerra fredda, ora avrà altri sviluppi. Presto la nomina di un ambasciatore Usa di origine italiana, Jeffrey DeLaurentis, diplomatico di carriera che già oggi è capo delegazione nell’ufficio che “rappresenta gli interessi” dell’America all’Avana. Si prepara anche una visita di Stato di Raul Castro a Washington: «Non lo escluderei», ha dichiarato il portavoce di Obama Josh Earnest. E poi uno tsunami di affari privati: dalla Coca Cola alla General Motors, dalla Cisco a Carlos Slim, i grandi del capitalismo Usa si apprestano a celebrare il “ritorno all’ovile” di quella che fu una colonia yankee.
L’antefatto-chiave per l’inizio della fine di un embargo durato 53 anni, è un’uscita che poteva costare cara al candidato Obama nel 2008. In un dibattito pre-elettorale con il suo rivale repubblicano John McCain, l’allora senatore dell’Illinois scoprì le sue carte in modo quasi imprudente. «Se divento presidente — disse allora Obama in tv — vorrei ristabilire i rapporti con Cuba. Sono pronto anche ad avere relazioni con l’Iran. Non parlare coi propri avversari, non è una politica che mi convince. Non fa progredire i nostri interessi». Apriti cielo. «Sei un ingenuo», lo rimbeccò a muso duro McCain. Ora Obama mostra coerenza e tenacia, inaugura l’ultimo biennio del suo secondo mandato mettendo a segno un colpo di portata storica. Solo il disgelo Usa-Cina voluto da Richard Nixon appare più importante, negli annali delle relazioni internazionali del dopoguerra.
Ma il dialogo con Cuba rimase un’opzione virtuale a lungo. Hillary Clinton oggi confessa che da segretario di Stato un suo fallimento fu il mancato “aggancio” di Cuba. Un incidente grave rinviò tutto, cinque anni fa: proprio l’arresto di Alan Gross, il funzionario addetto agli aiuti all’estero liberato mercoledì, che a Cuba voleva portare tecnologie per l’accesso a Internet. Sbattuto in carcere nel 2009, Gross divenne un ostacolo permanente al disgelo. La salute di Gross in carcere si deteriorava. Se fosse morto in prigionia a Cuba, il disgelo sarebbe diventato impossibile. Per questo la storia di Gross ha intersecato continuamente il grande negoziato sul ristabilimento delle relazioni diplomatiche bilaterali. Fino alla convulsa accelerazione degli eventi, concentrata negli ultimi 18 mesi. Un’improvvisa intensificazione dei contatti, che il New York Times ricostruisce come una storia di «spie, appuntamenti segreti, mediazioni della Santa Sede». Il Canada vi ha un ruolo decisivo, non politico bensì logistico. Per non bruciare il fragile filo dei contatti — vista l’ostilità feroce della destra repubblicana — la diplomazia Usa chiese ospitalità ai canadesi perché le riunioni clandestine fra le due delegazioni si svolgessero fuori dal territorio Usa, lontane dai media, blindate contro le fughe di notizie. Ben nove riunioni segrete in Canada, hanno messo in movimento l’operazione disgelo.
Un passaggio cruciale ci fu quest’anno a fine marzo, quando Obama andò da papa Francesco in Vaticano. Nel vertice a Roma i due a un certo punto si isolarono — narra la ricostruzione del New York Times — il dialogo divenne a tu per tu, senza testimoni. In mezzo a loro, la scrivania spoglia di papa Francesco, e un crocefisso dorato. Pochi giorni dopo il papa scriveva una lettera personale a Raul Castro». Il primo pontefice latinoamericano «ha un’influenza particolare sui leader di quell’area». Sbloccando la liberazione di Gross — che è avvenuta come un gesto umanitario, non collegato allo scambio di spie — quel passaggio ha spianato la strada verso il successo finale.
Un’altra accelerazione è venuta dal tracollo dei prezzi petroliferi. Dopo la fine dell’Urss, il Venezuela di Hugo Chavez era diventato il puntello economico del regime castrista. Ma l’economia venezuelana, già in crisi, negli ultimi mesi si è avvitata in una spirale disastrosa. Col petrolio che ha perso il 50% del suo valore da giugno, Caracas è sull’orlo della bancarotta.
Ora, insieme con le agevolazioni annunciate da Obama (più rimesse degli emigrati, più facile viaggiare, usare carte di credito), comincia la corsa al business Usa-Cuba. I rapporti di forze sono sproprozionati. Cuba può invadere gli Stati Uniti coi suoi sigari; l’America può reciprocare con tutto il resto. L’unico limite è il basso potere d’acquisto dei cubani. Il primo settore strategico riguarda Internet: colossi come Cisco (infrastrutture digitali) e i big delle telecom AT&T, Verizon, Carlos Slim, sono pronti ad approfittare di ogni spiraglio di apertura da parte di Castro, per mettere in rete un’isola dove solo il 5% della popolazione oggi ha l’accesso online. Ma tutti i marchi globali del consumismo made in Usa sono interessati al mercato che inizia ad aprirsi: dai giganti dell’agroalimentare a quelli del turismo di massa. Per l’ultima isola dei Caraibi a non essere stata cementificata dalle catene di hotel Marriott e Sheraton, inizia il conto alla rovescia.


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