Aids, il coraggio di un ragazzo e i pregiudizi che resistono
by redazione | 1 Dicembre 2014 11:18
Una ricerca Doxa stima in oltre 35 milioni le persone che vivono attualmente con l’Hiv: di queste, ben 19 milioni non hanno idea del proprio stato di sieropositività. Solo nel 2013, un milione e mezzo di persone sono morte per malattie legate all’Hiv, il 74% delle quali (secondo i dati di Unaids, il programma delle Nazioni Unite per l’Aids) vivevano nell’Africa subsahariana, e fino ad ora il virus ha mietuto ben 39 milioni di vite in tutto il mondo.
Messe nero su bianco, queste statistiche spiegano perché l’Aids, secondo l’Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità), è la sesta causa di morte nel mondo. Se si chiedesse a una persona qualunque la propria stima probabilmente non avrebbe idea di cosa rispondere a proposito dell’Aids. Andrebbe diversamente se gli si chiedesse dell’impatto delle malattie cardiovascolari.
Nessun’altra malattia mette in gioco un numero così alto di questioni sociopolitiche: intolleranza tradizionale e religiosa, disuguaglianza economica e sociale, razzismo, omofobia, scarsa istruzione, pudore; tutto ciò impedisce l’eradicazione di una patologia evitabile e l’accesso alle cure. Nessun’altra malattia in tempi moderni ha portato a una tale discriminazione nei confronti delle persone infette e di quelle più a rischio. Siamo diventati insensibili al numero di morti perché la maggior parte di loro è povera, nera o è lontana? Come sottolineato da una indagine di Unaids, il «Gap Report», porre fine alla epidemia è possibile, tuttavia è necessario guardare nei nostri Paesi, nelle nostre famiglie e affrontare ciò che temiamo di più.
La ricerca
Per prepararmi a scrivere questo articolo ho cercato di trovare alcuni giovani italiani disposti a raccontarmi la loro vita nella sieropositività. Ho iniziato chiedendo aiuto a Julian Fleet, già direttore di Unaids e avvocato per i diritti umani, poi alla Lila (Lega italiana per la lotta contro l’Aids) e infine al Cesvi, un’organizzazione umanitaria italiana. Tutti assieme non siamo stati in grado di trovare una sola persona sotto i 45 anni disposta a parlare pubblicamente. In Italia ci sono circa 140 mila persone che vivono con l’Hiv. Secondo la sopracitata ricerca condotta da Doxa per Cesvi, ci sono segni di una crescente noncuranza tra i giovani italiani, tra i 16 e i 35 anni, quando si tratta di proteggersi. Un sorprendente 48% di loro non pratica sesso protetto perché è impegnato in un rapporto stabile con un solo partner. Questa giustificazione è discutibile, considerando che solo il 29% dichiara di essersi mai sottoposto al test per l’Hiv.
Secondo Chiara Magni del Cesvi, i giovani italiani rispetto a quelli dello Zimbabwe o del Sudafrica, sono meno consapevoli delle conseguenze del sesso non protetto e molto più pudici nell’uso del preservativo: «In Italia c’è stigma, pregiudizio e paura e non se ne parla; non c’è un’educazione sessuale come nel Nord Europa e i preservativi sono ancora percepiti come uno strumento di sesso trasgressivo». Aggiunge poi Alessandra Cerioli, presidente della Lila: «Se una ragazza porta con sé un preservativo — il che sarebbe un comportamento responsabile — è ridicolizzata e viene considerata promiscua». Al contrario, in America i preservativi sono diventati quasi un simbolo di comportamento sessuale responsabile; ci si vanta orgogliosamente di usarli e c’è sempre stata una campagna di formazione sulla protezione, cosa che sembra inesistente in Italia.
La storia
Ho finalmente trovato qualcuno disposto a farsi intervistare grazie a un amico di Milano. Mi è stato presentato Eduardo, un venticinquenne nato da una madre sieropositiva figlia di una spacciatrice di droghe pesanti. In questo contesto la mamma iniziò a drogarsi a solo 13 anni. «Quando mio nonno ha scoperto tutto, denunciò la nonna che fu messa in prigione. Mia mamma e suo fratello passarono cinque anni in un centro di riabilitazione».
È stato là che la madre di Eduardo e suo padre s’innamorarono e a 24 anni lei rimase incinta. Durante la gravidanza scoprì di essere sieropositiva. Quando Eduardo aveva 3 anni lei morì di complicazioni connesse all’Aids. Il padre invece è sieronegativo. La positività all’Hiv di Eduardo gli è stata tenuta segreta per tutta la sua fanciullezza e, come conseguenza della mancanza di un trattamento medico appropriato, a 6 anni è diventato improvvisamente cieco: «È stato come spegnere la luce, mi ricordo ogni cosa come era prima e penso ogni cosa a colori».
Fu all’età di 15 anni, cercando su Internet notizie sui farmaci che sapeva di dover prendere per la vista, che capì di assumere dei retrovirali. Affrontò il padre che gli raccontò del passato. «Ne parlai con una mia compagna di classe mentre ci stavamo scambiando una sigaretta, lei me la restituì e il giorno dopo si confessò col docente di religione che era un prete. Gli disse che aveva condiviso una sigaretta con un ragazzo sieropositivo e fece il mio nome. Lui le diede una penitenza e convocò una riunione del consiglio di istituto in cui raccontò la mia storia. Il preside mi interrogò per sapere se avessi mai mentito o messo a rischio la salute dei miei compagni. Risposi che avevo detto una bugia, che cercavo attenzioni perché cieco e chiesi perdono».
Nei tre anni successivi Eduardo non parlò con nessuno della sua classe in quanto nessuno aveva più fiducia in lui. Nel frattempo si rese conto di essere gay. «Ho dovuto essere discreto — racconta —, perché quando si parla di me, si parla di cecità, omosessualità e sieropositività tutte allo stesso tempo: è un cocktail difficile!». L’isolamento sociale di Eduardo è totalmente ingiustificabile; la vergogna che prova deve essere nostra e di coloro i quali hanno ricoperto posizioni di autorità durante la sua adolescenza. Gli abusi di potere di certi sacerdoti e di certe scuole sono impossibili da giustificare.
Conoscere per capire
Oggi sono seduto a parlare con Eduardo che si è laureato da poco in Psicologia. Gli chiedo perché dopo anni di segretezza ha deciso di parlarmi. «Sono qui perché sono curioso, penso che se non si parla di qualcosa, questa cosa non esiste. Nel 2014 c’è ancora gente che non immagina l’esistenza di casi come il mio. Se ne parlo, rendo questi problemi reali permettendo alla gente di ampliare la propria conoscenza e tolleranza». Gli domando se si presenta come un sieropositivo: «La prima cosa che la gente deve considerare è la cecità — dice —, poi la mia omosessualità». Non posso fare a meno di rattristarmi per lui sebbene egli consideri il suo non essere identificato come sieropositivo come un punto di forza, lui infatti non ha mai potuto scegliere. «Fai parte di una comunità di sieropositivi?» gli domando e risponde di no. «La giornata mondiale dell’Aids è importante per te?», mi dice di no. «Sai che cosa è?». «No — dice — non ci sono mai stato».
Dopo l’intervista, Eduardo mi ha chiamato più volte perché lo rassicurassi. Il suo timore principale era che avrebbe potuto perdere il suo lavoro in una fondazione che si occupa di charity .
«Essere apertamente sieropositivi in Italia non è semplice perché sei ancora considerato una persona che si è comportata in modo disdicevole» sottolinea Cerioli, che continua, «dopo aver scoperto il loro stato, le persone spesso si autodiscriminano; alla Lila cerchiamo persone che si facciano avanti e che parlino, perché vogliamo combattere la discriminazione sul lavoro. Abbiamo avuto due casi di uomini licenziati da una compagnia di bandiera europea per essersi dichiarati sieropositivi: eravamo pronti a citare in giudizio la società e avremmo vinto se i due non si fossero defilati».
No all’isolamento
«Sono contento che abbiamo parlato — dico a Eduardo che è seduto sul divano di casa mia a Milano —, la tua storia è umana, difficile e complicata, ma le persone che non sono nelle tue condizioni, capiranno». È uno tra i pochi giovani a raccontarsi pubblicamente in Italia; lui se ne rende conto: «Ma non posso negare che provo rimorso e paura». La paura si sconfigge solo quando ci si confronta. In questa giornata mondiale contro l’Aids la storia di questo ragazzo è una straordinaria testimonianza della discriminazione e dell’isolamento. La sua vita è stata così piena di sfide, tante quante io non ne incontrerò mai nel corso della mia. C’è fiducia nel suo futuro che però è pieno di scadenze e condizioni. Il suo Paese, la sua Chiesa, il suo posto di lavoro, i suoi amici dovrebbero essere niente altro che fonti di sostegno e di forza.
Come possiamo seriamente aiutare a risolvere la devastante epidemia nell’Africa subsahariana che sta annientando giovani donne, bambini e uomini se non riusciamo neppure a tollerare lo stesso problema che abbiamo davanti alla porta di casa nostra?
(traduzione di Paolo Klun)