Addio fabbriche: milioni di posti migrati dagli Usa alla Cina
Da quando nel 2001 la Cina è entrata a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio, il Wto, e fa quindi parte del grande gioco del commercio mondiale, gli Stati Uniti hanno perso diversi milioni di posti di lavoro nel manifatturiero. O almeno così sostengono i ricercatori dell’Economic policy institute (Epi), autorevole think-tank progressista con sede a Washington in un rapporto pubblicato alcune settimane fa su cui vale la pena di mettere il naso mentre Europa e Stati Uniti negoziano il Transatlantic Trade and Investment Partnership. Si tratta di una tesi forte e in qualche modo controcorrente: non è vero che il commercio internazionale abbia aiutato tutti a crescere. O meglio, l’avvento del libero scambio planetario ha colpito il lavoro manuale e fatto crescere – nei paesi sviluppati – due gruppi separati di lavoratori: quelli knowledge based, della tecnologia e della finanza, che guadagnano bene, e quelli dei servizi di basso profilo, i cui salari sono sensibilmente più bassi di quelli del lavoro manifatturiero che hanno sostituito.
I dati sono presto detti: tra 2001 e 2013 negli States sono andati perduti 3,2 milioni di posti di lavoro a causa del deficit commerciale con la Cina e il 75% di questi (2,4 milioni) sono posti nel manifatturiero. Un dato di grande interesse messo in rilievo dal rapporto di Epi è quello che riguarda i computer. Tra i settori in cui si dice che gli Usa abbiano un vantaggio competitivo con la Cina c’è proprio quello tecnologico: i giganti della rete e molti colossi dell’hardware sono ancora americani. Eppure nei 12 anni presi in considerazione la crescita dell’import di componenti di computer, semi conduttori, apparati audio e video è creciuto in maniera esponenziale. E così i posti persi nel settore dell’elettronica sono quasi un milione e 250mila.
Del resto, guardando al deficit commerciale, che è un altro modo di misurare la stessa cosa con un’unità di misura diversa, il passivo americano nel comparto tecnologico nei confronti della Cina, nel 2013 era di 116,9 miliardi di dollari, ovvero il 36% del totale. Interessante da notare – per capire quanto la Cina abbia fatto strada su questo terreno – che con il resto del mondo, l’anno scorso, gli Usa hanno un avanzo commerciale di 35 miliardi. Quindi, se è vero che Apple e anche altre grandi case, hanno riportato piccole parti della produzione a casa, la strada per recuperare il lavoro è ancora lunga.
Altro dato rilevante è quello per cui il lavoro si continua a perdere anche in quei settori arretrati come il tessile dove si potrebbe pensare che quel che c’era da perdere sia andato già perduto. E invece più di centomila posti sono spariti nel tessile, altri nella componentistica per auto e altri ancora nella produzione dell’acciaio. La scomparsa di lavoro è dunque generalizzata dal punto di vista settoriale ma anche da quello geografico. Come si vede nella mappa qui sotto, il discorso vale ovunque, con il paradosso che le contee più colpite sono anche quelle di cui si dice che tutto vada bene: delle 20 contee più colpite otto sono in California e tra le tre più colpite ci sono quelle dove si trovano Cupertino, Mountain View e Palo Alto.
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