188 condanne a morte in Egitto

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La Corte penale di Giza ha con­dan­nato a morte 188 soste­ni­tori dell’ex pre­si­dente Moham­med Morsi per l’uccisione di 11 poli­ziotti, il sac­cheg­gio di una sta­zione di poli­zia e per aver dato fuoco a vei­coli dei poli­ziotti. L’episodio si rife­ri­sce al 14 ago­sto 2013: la notte dell’orrore di Rabaa al Ada­weya, il mas­sa­cro in cui sono morte forse due­mila per­sone in seguito allo sgom­bero delle strade occu­pate dai Fra­telli musul­mani per pro­te­stare con­tro il golpe mili­tare del 3 luglio 2013. L’attacco alla sta­zione di poli­zia di Ker­dasa è diven­tata per i media pub­blici e i soste­ni­tori del pre­si­dente egi­ziano Abdel Fat­tah al-Sisi il sim­bolo dell’uso della vio­lenza da parte degli isla­mi­sti con­tro la poli­zia. Quelle imma­gini bru­tali sono state per mesi rilan­ciate dalla tv di Stato per giu­sti­fi­care la repres­sione del regime con­tro tutti gli isla­mi­sti, come se non esi­stano distin­zioni tra mode­rati e ter­ro­ri­sti. Il ver­detto è stato pro­nun­ciato dallo stesso giu­dice che ha con­dan­nato a sette anni i tre gior­na­li­sti di al Jazeera, respon­sa­bili di aver rac­con­tato i giorni di occu­pa­zione di Rabaa.

Dei con­dan­nati solo 135 erano pre­senti in aula. Per l’avvocato della difesa, Bahaa Abdel-Rahman, due impu­tati sono morti durante il pro­cesso e non sono stati rimossi dalla lista dei con­dan­nati, incluso un minore. A con­ferma dell’approssimazione dei pro­cessi e di una giu­sti­zia diven­tata il brac­cio poli­tico del pre­si­dente Sisi. «Le con­danne a morte di massa stanno facendo per­dere velo­ce­mente la repu­ta­zione di indi­pen­denza che il sistema giu­di­zia­rio egi­ziano un tempo aveva», ha com­men­tato Sarah Leah Whi­tson, diret­tore di Human Rights Watch per il Medio oriente e il Nord Africa. «Anzi­ché valu­tare le prove caso per caso, i giu­dici con­dan­nano in massa gli impu­tati senza riguardo per gli stan­dard del giu­sto pro­cesso», ha aggiunto il think tank espulso dal paese dopo aver redatto un report dell’eccidio di Rabaa, che pun­tava il dito diret­ta­mente con­tro l’allora gene­rale al-Sisi. Ora sulle con­danne si pro­nun­cerà il gran-mufti della mas­sima isti­tu­zione sun­nita, al-Azhar, che potrebbe com­mu­tare le pene in erga­stolo. Lo stesso era avve­nuto con i 528 e 683 impu­tati, inclusi i prin­ci­pali lea­der della Fra­tel­lanza (lo stesso Morsi rischia la forca), con­dan­nati a morte dalla Corte di Minya per gli scon­tri che hanno avuto luogo nella città dell’Alto Egitto dopo lo sgom­bero di Rabaa. Di que­ste, 220 pene capi­tali sono state appro­vate in via defi­ni­tiva dai giu­dici egi­ziani. Nell’ultima ana­lisi perio­dica all’Onu sui diritti umani in Egitto, Ger­ma­nia, Unghe­ria, Fran­cia, Sviz­zera e Uru­guay hanno sot­to­li­neato le vio­la­zioni siste­ma­ti­che com­messe chie­dendo al governo di can­cel­lare la pena di morte dal codice penale.

Il mag­gior movi­mento d’opposizione, i Fra­telli musul­mani, subi­sce una delle repres­sioni più gravi dalla sua fon­da­zione negli anni Venti. Il par­tito Libertà e giu­sti­zia è stato messo fuori legge, insieme al movi­mento e alla Coa­li­zione per la legit­ti­mità che pro­te­stava per la depo­si­zione di Morsi. Il movi­mento è stato dichia­rato gruppo ter­ro­ri­stico dopo l’attentato alla sta­zione di poli­zia a Man­sura, il 24 dicem­bre 2013. Le ele­zioni par­la­men­tari, tra­di­zio­nale vei­colo di coop­ta­zione degli isla­mi­sti nel sistema, sono state fin qui can­cel­late. Scuole, orga­niz­za­zioni cari­ta­te­voli e ospe­dali, diretti da espo­nenti del movi­mento, sono stati chiusi o messi sotto stretto con­trollo dell’esercito, come la scuola di Man­sura, gestita dalla sorella del lea­der del movi­mento in pri­gione, Khai­rat al Sha­ter. La Com­mis­sione par­la­men­tare, inca­ri­cata di con­ge­lare i beni della Fra­tel­lanza, ha seque­strato i fondi di decine di ong legate al movi­mento, deci­dendo il tra­sfe­ri­mento di oltre mille asso­cia­zioni, ora sotto con­trollo gover­na­tivo. I beni di migliaia di espo­nenti della Fra­tel­lanza sono stati seque­strati, molti atti­vi­sti con­ti­nuano a mar­cire in pri­gione senza accusa e a morire per le con­di­zioni deten­tive o dopo lun­ghi periodi di scio­pero della fame.



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