Yabar, ragazzo alla ricerca di sé

by redazione | 22 Novembre 2014 10:59

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Inquieto, pro­vo­ca­to­rio, appa­ren­te­mente disil­luso, Yabar è una diciot­tenne romano di ori­gine somala. Dopo che un liti­gio con la sua più cara amica l’ha costretto in ospe­dale — lei gli ha spruz­zato della ver­nice in fac­cia -, riper­cor­rerà la sua vita por­tan­doci con sé in un viag­gio che dalle sponde del Tevere con­duce fino alla Soma­lia, pas­sando per le comu­nità della dia­spora di Lon­dra, dove era stato man­dato dopo essere stato boc­ciato a scuola, e, soprat­tutto, alla sco­perta del coin­vol­gi­mento del padre, scom­parso da tempo dalla sua esi­stenza, nelle san­gui­nosa guerra civile del paese africano.

Yabar è il pro­ta­go­ni­sta de Il coman­dante del fiume (66thand2nd, pp. 208, euro 16), seconda prova nar­ra­tiva di Ubah Cri­stina Ali Farah dopo Madre pic­cola, uscito nel 2007 per Fras­si­nelli, la sua par­te­ci­pa­zione a diverse anto­lo­gie di rac­conti e l’attività poe­tica pre­miata con nume­rosi rico­no­sci­menti. Con que­sto romanzo, Ubah Cri­stina Ali Farah, scrit­trice nata a Verona nel 1973 da padre somalo e madre ita­liana, dà voce alla nuova Roma pla­smata negli ultimi decenni dalla pre­senza di tanti volti e sto­rie pro­ve­nienti da ogni angolo del mondo. Ma soprat­tutto descrive, con que­sto romanzo di for­ma­zione che sor­prende ed emo­ziona, e che non teme di misu­rarsi con la guerra, il ter­ro­ri­smo e il rifiuto dell’altro, l’irresistibile nor­ma­lità di que­sta tra­sfor­ma­zione attra­verso la vita di un ragazzo che sem­bra sco­prire nel Tevere i coc­co­drilli delle favole afri­cane con cui è cre­sciuto. L’autrice ha pre­sen­tato il suo libro a Roma, presso la Biblio­teca Guglielmo Mar­coni nell’ambito del pro­getto Inter­cul­tura ed è stata fra gli ospiti del festi­val mila­nese Bookcity.

Un romanzo che si snoda tra Roma e l’Africa, che descrive la cre­scita di un gio­vane di ori­gine somala in una città che fatica a sco­prire la sua iden­tità plu­rale. È una sorta di dise­gno autobiografico?

Il pro­getto del libro è nato molti anni fa, quando, insieme ad altri autori che come me non erano nati a Roma, mi era stato chie­sto di scri­vere un rac­conto che avesse a che fare con la capi­tale. Vivevo in que­sta città da molto tempo, ma mi ci sen­tivo, diciamo così, sem­pre un po’ di passaggio.

Non sapevo bene cosa scri­vere, ma poi gra­zie ad un amico, cre­sciuto a Roma ma di fami­glia etiope, con cui lavo­ravo come media­trice cul­tu­rale, sono entrata in con­tatto con i gio­vani, soprat­tutto somali, eri­trei, etiopi, vale a dire delle ex colo­nie ita­liane in Africa, e capo­ver­diani che si incon­tra­vano a piaz­zale Fla­mi­nio e ho visto il modo con cui si misu­ra­vano con la metro­poli. Mio figlio, inol­tre, è cre­sciuto a Roma e così è anche alla sua espe­rienza che ho attinto per il lin­guag­gio e il legame con la città, due ele­menti che sono alla base de Il coman­dante del fiume.

Il gio­vane pro­ta­go­ni­sta, Yabar, ci guida attra­verso le tappe di quella che appare come la con­qui­sta della con­sa­pe­vo­lezza di sé. La sua «for­ma­zione» è il filo lungo cui seguire l’intreccio della storia?

La strut­tura del romanzo si muove su tre piani tem­po­rali. C’è il pre­sente di Yabar, rico­ve­rato in ospe­dale, la cro­naca delle vicende che lo hanno con­dotto fin lì, scan­dita lungo la sua infan­zia ed ado­le­scenza, e poi il pas­sato più lon­tano che lui cerca di rico­struire, riap­pro­prian­dosi con­tem­po­ra­nea­mente della sua storia.

AliFarah-tour

In que­sto per­corso, ho voluto che ciò che con­duce il ragazzo a inter­ro­garsi sulle sue radici e sulla sto­ria della sua fami­glia non sia un avve­ni­mento che abbia a che fare con le sue ori­gini «altre», ma un fatto, come una boc­cia­tura a scuola, che può appar­te­nere all’esperienza di uno qual­siasi dei suoi coe­ta­nei. La crisi di Yabar, che lo con­durrà a misu­rarsi con la parte più dolo­rosa delle vicende della sua fami­glia e con la tra­ge­dia della guerra civile somala, ini­zia per qual­cosa che potrebbe riguar­dare chiunque.L’essere stato boc­ciato e l’assenza del padre, met­te­ranno così in moto una ricerca che sem­bra rispon­dere anche a que­siti più gene­rali che sente pesare su di sé. Que­sto per­ché lui è con­vinto che la realtà di una per­sona non possa essere com­presa guar­dando al colore della sua pelle o al modo in cui parla, un atteg­gia­mento che gli capita, invece, di subire spesso.
Misu­rarsi con il ruolo avuto dal padre nella guerra civile somala, sem­bra ser­vire a Yabar per riba­dire la sua iden­tità di gio­vane ragazzo romano. Fa chia­rezza sulle sue ori­gini per capire chi è davvero?

Il ragazzo accusa le due donne che l’hanno cre­sciuto, la madre e «zia» Rosa di essere reti­centi rispetto a quel pas­sato. In realtà, lui sa come sono andate le cose, ma si deve misu­rare con l’atteggiamento quo­ti­diano di chi gli chiede in con­ti­nua­zione: «ma tu da dove vieni?». Come se dovesse spie­gare e riba­dire in ogni momento la sua appar­te­nenza, quasi giu­sti­fi­care la sua pre­senza in un luogo che lui sente suo, vale a dire que­sto paese.
Per­ciò, la sto­ria di suo padre e della guerra in Soma­lia, lui la cono­sce già, fa parte del suo imma­gi­na­rio, forse teme sol­tanto di non cono­scerla. Il punto è che sente però il biso­gno di riba­dire che appar­tiene allo spa­zio in cui vive, che ha il diritto di esserci: lo fa pro­prio com­piendo un viag­gio attra­verso il pas­sato della sua fami­glia. Rispon­dere a domande su «chi sei» e «da dove vieni» è una cosa molto com­plessa, che neces­sita di rispo­ste arti­co­late e non certo super­fi­ciali. Alla fine del romanzo Yabar rispon­derà che la sua fami­glia sono le per­sone con cui è cre­sciuto, poco importa la loro ori­gine, e la sua casa è Roma.

In un fitto gioco di rimandi, pro­prio la città e il Tevere, lungo le cui sponde i ragazzi cor­rono e si incon­trano, sem­brano evo­care nella sto­ria la favola di un fiume afri­cano popo­lato di ani­mali feroci, meta­fora della con­di­zione umana. Quale Roma ha descritto?

Nella pro­spet­tiva di un romanzo di cre­scita o di for­ma­zione quale è per certi versiIl coman­dante del fiume, volevo che si per­ce­pisse l’idea di una descri­zione favo­li­stica della città, che ne ren­desse la dimen­sione ludica e di sco­perta che è pro­pria dei ragazzi. Allo stesso modo, anche la favola afri­cana che parla della sco­perta del male, prima di tutto den­tro se stessi, mi sem­brava un sim­bolo molto forte di cre­scita. L’immaginario di Yabar, al pari di quello di tanti gio­vani di ori­gine stra­niera, si è costruito met­tendo insieme que­sti ele­menti: ci sono tracce della cul­tura e della let­te­ra­tura ita­liana, ma anche della cul­tura orale somala, il tutto mesco­lato nell’esperienza di vita in una grande città.

Nell’elaborazione del romanzo è stata molto impor­tante anche una cosa che mi ha detto una volta la mia amica scrit­trice Carola Susani: il peri­colo che nella nar­ra­tiva delle migra­zioni i rife­ri­menti alla cul­tura che gli autori hanno alle spalle sia pre­va­lente rispetto a quella ita­liana. Così, prima di ini­ziare a scri­vere mi sono immersa nella let­te­ra­tura ita­liana del dopo­guerra, quando si sen­tiva un gran biso­gno di rac­con­tare delle sto­rie, e mi sono sen­tita rin­fran­cata, accolta da que­sti romanzi per­ché vi ho tro­vato lo stesso biso­gno di nar­rare una mol­te­pli­cità di vicende, quasi impos­si­bili da com­pri­mere in un solo romanzo.

Si parla abi­tual­mente di «seconde gene­ra­zioni» anche a pro­po­sito della let­te­ra­tura: è una defi­ni­zione che le va stretta?

Que­sto tipo di eti­chette ser­vono per indi­care feno­meni e per­corsi che sono natu­ral­mente più com­plessi e arti­co­lati di quanto non dica la sem­plice defi­ni­zione. La scrit­tura è un lavoro indi­vi­duale, ma ciò di cui vuoi scri­vere, le cose di cui ti capita di par­lare nascono sem­pre in un con­te­sto. Per­ciò è vero che ricor­rere a delle cate­go­rie gene­rali può risul­tare limi­tante ma, allo stesso tempo, indica in modo chiaro cosa sta acca­dendo nella società, il modo in cui la società stessa ha per­ce­zione dei cam­bia­menti che l’attraversano. Per­ciò in que­sto caso met­tere l’accento sulle spe­ci­fi­cità di alcuni autori, spe­ci­fi­cità data dal loro vis­suto, dal loro rap­porto con la lin­gua o con la sto­ria, signi­fica anche ren­dere espli­cito il modo in cui par­te­ci­pano della cul­tura ita­liana di oggi.

In Ita­lia siamo all’inizio, sia per chi scrive, sia per l’accoglienza e l’attenzione rivolta a que­sti romanzi. Per­ciò sento che chi come me scrive delle pro­prie diverse ori­gini ha una grande respon­sa­bi­lità, ma sento anche di con­di­vi­derla con chi invece non le ha e credo oggi debba cer­care di capire e di appro­priarsi di tutto ciò. Que­sto paese sta cam­biando mol­tis­simo e cam­bierà ancor di più in futuro: l’importante è che tutti fac­ciano la loro parte.

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