Le tutele dell’articolo 18 non torneranno più con i nuovi contratti solo risarcimenti crescenti

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Un contratto a risarcimento crescente più che a tutele crescenti. Perché per tutti i lavoratori (giovani o anziani) che da gennaio saranno assunti con il nuovo contratto previsto dal Jobs Act non scatteranno mai le tutele (in particolare quella del reintegro) dell’articolo 18 dello Statuto nelle modalità attualmente fissate per chi lavora in un’azienda con più di quindici dipendenti.
L’effetto è certamente un nuovo dualismo nel mercato del lavoro ma, nello stesso tempo e per la prima volta, anche un trattamento uniforme sugli altri capitoli (dalla tutela per la malattia alle garanzie per la maternità) per tutti i lavoratori, vecchi e neo assunti. Questo perché i forti incentivi fiscali e contributivi che il governo ha messo in campo con la legge di Stabilità (azzeramento per i primi tre anni dei contributi per le nuove assunzioni ed eliminazione del costo del lavoro dal calcolo dell’imposta Irap) dovrebbero incanalare le assunzioni verso il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e disincentivare il ricorso ai cosiddetti contratti atipici che gli imprenditori, salvo eccezioni, hanno sempre scelto per ragioni di costo. Insomma quasi tutti a tempo indeterminato (come chiede l’Europa che considera questo il contratto “standard”) ma con forme di tutele diverse nel momento del licenziamento individuale senza giusta causa.
Il primo decreto attuativo della riforma del lavoro sarà quello sul contratto a tutele crescenti e praticamente in simultanea arriverà, sempre a gennaio, quello che modificherà l’attuale Aspi, l’Assicurazione sociale per l’impiego cioè la vecchia indennità di disoccupazione, introdotta nel 2012 con la riforma Fornero del mercato del lavoro. Le due cose non possono che andare di pari passo.
Il cuore della riforma è dunque il contratto a tutele crescenti. La versione scelta dal governo, e condivisa ora dal Parlamento, non prevede che trascorso un certo numero di anni la tutela nel caso di cessazione del rapporto di lavoro sia identica tra lavoratori della medesima azienda. La disparità di trattamento, secondo i consiglieri giuridici del governo, non dovrebbe portare a una dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte costituzionale. «I rapporti di lavoro — spiegano — nascono da contratti diversi e dunque sono possibili, come già ora, tutele distinte». Il trattamento, pertanto, varierà in rapporto al momento dell’assunzione e tra chi avrà il contratto a tutele crescenti l’indennizzo monetario in caso di licenziamento economico o disciplinare (fatte salve le specifiche fattispecie che saranno indicate nel decreto attuativo) aumenterà con l’anzianità di servizio del lavoratore e potrebbe essere pari all’ammontare tra le 24 e le 36 mensilità.
L’esecutivo ha così scelto di salvaguardare i circa 6,3 milioni di lavoratori oggi tutelati dall’articolo 18 per evitare di generare ulteriori incertezze e di modificare strutturalmente le regole sui licenziamenti individuali senza giusta causa per i neo assunti. L’ipotesi (molto caldeggiata nel passato dal Pd che presentò anche alcune proposte di legge) di prevedere una parificazione di trattamento dopo tre anni è stata dunque abbandonata.
Sarà pertanto una sostituzione lenta e graduale quella del classico contratto a tempo indetermi- nato con il contratto a tutele crescenti. Ci vorranno anni perché si esaurisca lo stock attuale di contratti standard. La nuova tipologia contrattuale si applicherà anche a chi lascerà un’azienda (nella quella godeva di tutte le tutele) per passare ad un’altra. Il rischio, messo in evidenza da alcuni giuslavoristi tra i quali Michele Tiraboschi, è che sia disincentivata la mobilità da un posto ad un altro con prevedibile danno indiretto (dopo quello provocato dall’innalzamento dell’età pensionabile con la riforma Fornero) per i giovani in cerca di occupazione. Cambiare lavoro sarà, per alcuni aspetti, più rischioso e questo non potrà aver effetti anche sulle politiche aziendali sulle risorse umane.
Cambierà anche l’Aspi (e scomparirà la cosiddetta mini-Aspi) per essere innanzitutto estesa ai circa 350 mila collaboratori a progetto con un solo committente (esclusi quindi gli amministratori e i sindaci), che di fatto sono lavoratori subordinati. Costo per la tutela dei co. co. pro, quasi 200 milioni l’anno. Il trattamento, per tutti, sarà commisurato alla storia contributiva del lavoratore. Il relativo decreto dovrà essere pronto quando cominceranno ad essere sottoscritti i nuovi contratti a tutele crescenti per “compensare” la maggiore flessibilità in uscita. Il governo (i decreti attuativi non saranno discussi in Parlamento) deve ancora scegliere tra due opzioni: incrementare la platea dei destinatari (oltre ai co. co. pro), oppure estendere la durata del trattamento di disoccupazione. Possibile che prevalga una via di mezzo agendo su entrambi i lati viste le scarse risorse a disposizione: 1,9 miliardi.
Solo in un secondo momento arriverà la riforma della cassa integrazione (non ci sarà più in caso di cessazione dell’attività aziendale o di un ramo di essa) e dell’indennità di mobilità che dal 2017 non farà più parte dei nostri ammortizzatori sociali, sostituita appunto dall’Aspi.


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