Silicon Valley, i segreti delle società hi-tech

Silicon Valley, i segreti delle società hi-tech

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Petrolieri e produttori di tabacco? Banche figlie del partito? Sì, certo. Ma anche le sale colorate di Google e la risata contagiosa di Jeff Bezos custodiscono segreti. Perché sono proprio le imprese tecnologiche (da Amazon a Google, da Apple a Ibm) a tenere compagnia ai burocrati cinesi in fondo alla classifica della trasparenza. E non si tratta solo dello slalom tra le tasse che consente alle multinazionali di pagare al fisco solo una frazione del dovuto: le sorridenti imprese della Silicon Valley fanno trapelare poco sull’organizzazione interna e mettono quantomeno in secondo piano le politiche aziendali anti-corruzione.

Sono i risultati di uno studio di Transparency International sulle 124 compagnie più grandi al mondo. Nelle ultime 15 posizioni dominano le cinesi Bank of China, China Construction Bank, China Shenhua Energy Company, Industrial and Commercial Bank of China, Agricultural Bank of China, China Construction Bank, Bank of Communications, CNOOC Limited. Ma a far loro compagnia ci sono AmazonGoogle. Poco più in alto Apple, Ibm e Oracle. Con una differenza: se i gruppi cinesi non godono certo di buona pubblicità, la Mela e Big G sono tra i dieci marchi globali con la migliore reputazione.

Eppure, quanto a trasparenza, i big della tecnologia fanno peggio di imprese dall’immagine ben più opaca. Petrolieri, fast food, banchieri e persino produttori di tabacco sono più aperti rispetto ai prìncipi del web, che della libertà d’accesso hanno fatto una bandiera.

Al capitolo “Organizzazione interna”, il punteggio di Apple, Google, Microsoft e Oracle è “uno”. Per fare un confronto con tre nazioni e tre settori diversi (e tra i peggiori), Bank of China arriva a 2, i russi di Gazprom e la British American Tobacco a 3,5. Ma cos’è la trasparenza dell’organizzazione? Non certo l’occultamento delle alte sfere del gruppo. Le facce di Tim Cook e Sergey Brin sono arcinote. A mancare sono le informazioni su joint-venture, fornitori e controllate estere. Amazon, Apple e Google non dicono nulla sui loro partner. Non indicano neppure in quali Paesi operano.

Spesso i soli dati disponibili sono quelli che riguardano la capogruppo. E anche in questo caso i buchi neri non mancano. I big di internet, in buona compagnia, hanno fatto dell’elusione fiscale un mantra.

L’Europa e i singoli Stati stanno da tempo cercando una soluzione. Per ora senza risultato. L’unica novità recente è la prevista abolizione (nel 2020) del “Double Irish”, quel meccanismo fiscale che ha attirato in Irlanda diverse multinazionali, tra le quail Google e Facebook. Il gioco funziona così: Dublino incassa le imposte su lavoro e strutture, consentendo di fatto alle compagnie di trasferire gli utili dove non sono tassati. Nel caso di Google, alle Bermuda.

Niente trapela sulle (vere) tasse dovute al Fisco di mezzo mondo. Amazon si limita a dire che opera in 11 Paesi, ma svela il fatturato registrato solo in Germania, Giappone e Regno Unito. Altri dati finanziari? Non pervenuti. Discorso simile per Apple e Google. La società di Cupertino opera in 15 Paesi ma pubblica i ricavi solo in Cina e Giappone. Google imperversa in 44 Stati concedendo solo i numeri sul giro d’affari britannico.

Persino sui programmi anti-corruzione, le grandi della tecnologia balbettano. Transparency International ha chiesto loro di rispondere ad alcune semplici domande. Tra queste, se ci sono corsi specifici in azienda. E se il gruppo vieta esplicitamente i “facilitation payments”, pagamenti (legali) ma dal confine sfumato con le busatrelle. Amazon, Apple e Google hanno preferito non rispondere.



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