by redazione | 28 Novembre 2014 9:37
Anche a Milano l’attuale crisi economica mondiale ha eliminato migliaia di posti di lavoro e sta trascinando centinaia di persone verso la povertà assoluta, con ormai una moltitudine di famiglie escluse da un circuito di welfare garantito fino a qualche anno fa.
Ciò sta rilevando che il sistema capitalistico urbano di fatto non garantisce un futuro prospero per tutti, ma solo a una cerchia sempre più ristretta di cittadini.
La crisi e la conseguente recessione rende palese che i meccanismi di inclusione e di coesione sociale per una sempre più vasta fascia debole urbana stanno saltando.
Si sta infatti producendo nei quartieri popolari uno sfaldamento di un tessuto sociale, già lacerato da decenni di deindustrializzazione, che arriverà a impedire una convivenza civile in questi territori.
L’idea che ciclicamente torna in auge come soluzione al problema, fomentata dai mezzi di comunicazione e fatta propria da tutte le forze politiche legittimate da questo iniquo sistema rappresentativo, pare essere quella della repressione legata ad una ben collaudata stigmatizzazione dei poveri.
La delegittimazione dei sindacati e dei movimenti urbani di lotta rientra in questa strategia che tende a indebolire i già risicati strumenti di difesa e organizzazione dal basso.
La politica abitativa può venire in questo modo ridotta principalmente nell’individuare le forme di repressione più efficaci senza cogliere né le cause del problema ne ricercare le possibili soluzioni.
Si assiste così in questi giorni al rincorrersi di proposte trasversali che vanno dall’esercito nelle strade, alla polizia municipale militarizzata fino all’idea del vigilantes custode del bene pubblico, nella fattispecie molto deteriorato.
In risposta così ad un esigenza reale di sicurezza nei quartieri popolari ai quali dovrebbero essere fornite risposte ben più articolate si ripercorrono vecchi sentieri un tempo solcati dalle forze reazionarie ed ora definitivamente sdoganati in maniera trasversale.
Le due criticità sulle quali si dovrebbe intervenire per disinnescare almeno in parte una emergenza abitativa che comincia ad avere contorni di drammaticità non più sopportabili: gli sfratti ed il degrado strutturale dei quartieri di edilizia pubblica, rischiano di venir trattate esclusivamente come questione di ordine pubblico.
È di tutta evidenza invece che se non si pone mano da una parte ad una riforma della legge delle locazioni private (L.431/98) con la fissazione per legge di canoni sopportabili assieme ad una ormai indispensabile graduazione degli sfratti e dall’altra all’individuazione di una fiscalità che permetta il sovvenzionamento ed il mantenimento dell’edilizia pubblica, nulla potrà essere risolto neanche con i carri armato al Lorenteggio o al Giambellino.
Anche a livello locale, proprio se non si vuole che i quartieri più critici diventino terra di scontro tra i poveri si deve rendere prioritario un intervento a sostegno della popolazione delle periferie con una maggiore presenza di servizi sociali, riqualificazione delle scuole, associata ad una politica di interventi di riqualificazione (anche ambientale) dei quartieri popolari.
Al di fuori di questa pratica politica c’è purtroppo solo l’idea della speculazione immobiliare (con il suo bagaglio di proposte che vanno dagli annunci più radicali quali l’abbattimento dei quartieri di edilizia pubblica fino alla vendita delle case popolari) da sempre cavallo di battaglia della destra organica a quella branchia del capitale.
Si inserisce sciaguratamente in questa logica la campagna di stampa orchestrata a Milano sulla questione delle occupazioni abusive e sull’estremo degrado delle periferie. Sorge forte il sospetto che si parli delle periferie per il periodo propizio a una campagna elettorale o, come detto, si vogliono far passare delle politiche che favoriscono la rendita immobiliare anche sulla pelle di chi subisce già una condizione di reiterata esclusione. Per il restante periodo dell’anno i poveri della periferia sono una entità sociale che inquieta, per questo li si emargina, non si vogliono né vedere né ascoltare.
Le centinaia di occupazioni di alloggi popolari di quest’anno indicano inequivocabilmente che il problema abitativo lo si è voluto far incancrenire proprio sul territorio dove dovevano essere trovate le soluzioni più urgenti, quali la ristrutturazione degli alloggi sfitti ed una conseguente ampliamento dell’offerta pubblica di case a canone sociale. A fronte di un emergenza conclamata con centinaia di sfratti eseguiti in città, i 10.000 alloggi sfitti sono una contraddizione troppo stridente per non denunciare precise responsabilità delle istituzioni a tutti livelli.
Questa sottovalutazione dell’emergenza casa da chi doveva attuare una politica adeguata all’enorme livello di bisogno di una così vasta fetta di popolazione ed un lassismo sospetto di chi aveva il compito controllare e curare il patrimonio pubblico in gestione ha lasciato interi quartieri nelle mani di piccoli malavitosi organizzatori di occupazioni rendendo di fatto la vita degli inquilini residenti ancora più disagiata e degradando progressivamente l’ambiente.
Sarebbe stato sufficiente per disinnescare almeno una parte della questione delle occupazioni applicare un accordo sottoscritto nel 2012 tra l’allora Assessore alla Casa del Comune di Milano e tutti i sindacati e cominciare a regolarizzare quelle famiglie che hanno occupato in stato di necessità e che presentano condizioni di fragilità sociale. Nonostante le centinaia di domande documentate nessuna istanza è stata esaminata e ora sarà sempre più difficile intervenire in una contesto dove la situazione in più parti della città è degenerata.
Gli annunci irresponsabili di Aler, Prefettura, Comune e Regione di sgomberi indiscriminati, gli editti medioevali del Governo di togliere agli occupanti luce, gas e residenza rendendoli dei paria della società e l’escalation dei mass media nella criminalizzazione di tutti gli occupanti indistintamente dallo stato di bisogno stanno fomentando irresponsabilmente un odio montante tra gli abitanti delle case popolari in guerra tra loro e il resto della città che vede questi terreni di scontro come territori da bonificare.
I drammi sociali che si preannunciano per gli abitanti dei quartieri popolari con uno uso scriteriato della violenza difficilmente potranno non produrre una frattura tra le periferie e il resto della metropoli andando a erodere il diritto alla casa della fascia più debole della cittadinanza e finanche a scalfire il senso del diritto di ogni inquilino ad avere una vita dignitosa.
Sarà una stagione lunga dove si dovrà tentare di difendere le situazioni più deboli e dove la resistenza agli sgomberi di chi ha occupato per necessità diventerà un intervento centrale di chi lotta nel territorio sulla questione abitativa.
Ma un’opposizione contro un potere fatto di sola repressione non potrà essere contrapposto comunque un antagonismo basato esclusivamente sullo scontro che riproduce all’esterno l’incapacità di comprendere la complessità dei luoghi dove si interviene e la fragilità delle persone che vi abitano.
Fermo restando le soverchie responsabilità delle Istituzioni, le tensioni e l’invivibilità in intere fette di territorio urbano non portano solidarietà per nessuna forma di lotta che contribuisce a generarle, non producono consenso e tantomeno promuovono organizzazione.
Non in assoluto, ma ormai troppo spesso lo strumento di lotta mirato a soddisfare l’immediato il bisogno abitativo di una esigua minoranza a scapito, a volte contro, la maggioranza di chi abita quartieri di edilizia popolare genera, moltiplicandolo, degrado e spesso sopraffazione del più debole.
Poca indignazione di converso suscitano le 80mila case private sfitte a Milano che sono una contraddizione ben più stridente di questa drammatica emergenza abitativa.
La presenza militante nei luoghi di sopravvivenza della classe subalterna deve essere dunque ripensata in funzione di una rivendicazione per il miglioramento delle condizioni di vita, per la restituzione della dignità e del decoro del vivere e abitare in quello che ora sono luoghi di esclusione e alienazione.
Obiettivo decisamente più complicato che presume un elaborazione politica più elevata rispetto a quella prodotta fino ad ora e probabilmente il raggiungimento di un più alto livello di conflittualità.
Deve orientarsi e maturare così una contrapposizione radicale a un sistema (con meccanismi conosciuti e responsabili ben individuabili) che ghettizza le periferie, sfratta, espelle e depriva dei propri diritti all’abitare masse sempre più numerose di popolazione che hanno bisogno ora più che mai di una difesa unitaria, cosciente, organizzata e quanto più possibile determinata.
* Sicet-Milano
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