Separatisti d’Italia uno su tre favorevole all’addio a Roma

by redazione | 10 Novembre 2014 18:10

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IERI , in Catalogna, si è svolta la consultazione sull’indipendenza dalla Spagna, dichiarata illegale dal governo centrale e dalla Corte Costituzionale. Ma le autorità catalane hanno proceduto egualmente e la partecipazione è stata massiccia. Come il consenso ottenuto dalla rivendicazione catalana. Anche 2 mesi fa, in Scozia, comunque, il 45% dei cittadini aveva votato contro l’unione con Londra. Il vento indipendentista, dunque, soffia forte in Europa. Soprattutto dove esistono divisioni territoriali – economiche e culturali – profonde e radicate. Neppure in Italia la questione dell’indipendenza regionale è nuova. La Lega ne ha fatto una bandiera, fin dalle origini. Ha minacciato la secessione, negli anni Novanta. Senza grande successo, alla prova dei fatti. Quando, nel settembre 1996, organizzò una marcia sul Po, per dichiarare – appunto – l’indipendenza della nazione Padana. Con un seguito molto scarso, però. D’altronde, la Padania era – e resta – un’entità immaginaria.

Ma l’indipendenza è un obiettivo perseguito anche da altri gruppi e movimenti, soprattutto in Veneto. Con azioni dimostrative, come l’assalto al campanile di San Marco, da parte dei Serenissimi, nel 1997. O, nello scorso mese di marzo, attraverso un referendum autogestito. Azioni localizzate, ad opera di soggetti localizzati. Nel Nord, ma soprattutto in Veneto, appunto. Eppure, come abbiamo già suggerito altre volte, conviene non sottovalutare questi eventi. Né considerarli segni di un malessere territoriale espresso dai “soliti veneti”. Che strepitano tanto ma, all’atto pratico, combinano poco. La sindrome indipendentista, in effetti, non è così limitata né delimitata.
Appare, invece, diffusa, se oltre il 30% del campione nazionale (rappresentativo della popolazione) intervistato da Demos, nelle scorse settimane si dice d’accordo con l’indipendenza della propria regione dall’Italia. Quasi uno su tre, dunque. Distribuito diversamente, anzitutto su base territoriale. Il sentimento indipendentista, com’era prevedibile, è concentrato, anzitutto, nel Nord. In particolare nel Nordest, dove è condiviso da oltre metà della popolazione. Soprattutto in Veneto, dove supera il 53%. Un dato praticamente identico a quello rilevato in un sondaggio dello scorso marzo. Il campione, nelle altre due regioni di quest’area, è, invece, troppo limitato per suggerire stime (ma in Friuli Venezia Giulia l’adesione al referendum andrebbe oltre il 60%). Ma l’indice di indipendentismo risulta superiore alla media anche in Piemonte e in Lombardia (dove scavalca il 35% della popolazione). La “questione settentrionale”, dunque, non sembra essersi assorbita, nel corso degli anni. Semmai, si è “regionalizzata” maggiormente. Ma continua a generare distacco dall’identità nazionale. Il sentimento indipendentista risulta, però, molto esteso anche nelle due grandi isole, Sardegna e Sicilia, dotate di Statuto autonomo. In entrambi i casi, circa il 45% della popolazione (intervistata) afferma di ambire all’indipendenza. Nonostante la “dipendenza” dai trasferimenti dello Stato centrale.
Più sorprendente, invece, risulta l’ampiezza (superiore alla media) degli indipendentisti nel Lazio (35%). Ma in questo caso, probabilmente, conta l’influenza di “Roma capitale”. La tendenza (e la tentazione), cioè, di sovrapporre le due entità e identità. Roma all’Italia. E viceversa. In questo caso, cioè, si tratterebbe di vocazione all’auto-dipendenza.
Lo spirito indipendentista, invece, presenta valori limitati nel Mezzogiorno (ad eccezione delle Isole) e nelle regioni “rosse” dell’Italia centrale. E ciò suggerisce alcune importanti ragioni – ulteriori rispetto alla storia e ai fattori geopolitici. Ragioni socio-economiche, connesse al reddito e all’attività professionale, anzitutto. L’aspirazione indipendentista, infatti, raggiunge la massima diffusione fra gli operai, i lavoratori indipendenti (imprenditori e autonomi) e, inoltre, fra i disoccupati. In altri termini, tra le figure professionali maggiormente coinvolte nel mercato del lavoro. Su versanti opposti.
Gli imprenditori, i lavoratori in-dipendenti del Nord e del Nordest, soffrono per i vincoli – fiscali e burocratici – imposti dallo Stato, in profondo contrasto con l’instabilità dei mercati globali – e senza regole – in cui sono proiettati. Mentre i lavoratori “dipendenti” ed “esclusi”, i disoccupati, soffrono per la debolezza delle tutele pubbliche. E per le conseguenze sul mercato del lavoro di un’economia – e di una finanza – senza confini. Le stesse ragioni che hanno accelerato i flussi demografici e migratori. Che inquietano, più degli altri, gli strati sociali periferici. Gli ultimi e i penultimi della società. Così si comprende – e appare conseguente – anche il profilo politico dell’indipendentismo. Largamente maggioritario fra gli elettori della Lega (oltre tre su quattro). Ma fortemente marcato anche nella base di Forza Italia (45%). Il “forza-leghismo” (secondo la “definitiva definizione” di Edmondo Berselli), dunque, riassume l’indipendentismo dei “forti” e dei “deboli”. Del Nord e del Sud. Uno spirito diverso e diversificato. Unificato da un comune senso di distacco dallo Stato. Da un comune spaesamento rispetto al mondo che incombe come una minaccia – alla condizione di vita e alla comprensione di ciò che avviene intorno.
In altri termini, lo spirito indipendentista che alita nel Paese, più che l’avanzata del regionalismo, riflette il crescente distacco dallo Stato. Non compensato da altre e diverse appartenenze, da altri e diversi ambiti di governo. Inter- nazionali, come la Ue. Ma neppure territoriali, come le stesse Regioni. Patrie alternative: stanno perdendo consenso, fra i cittadini.
Così, c’è il rischio, per gli italiani, di ritrovarsi, alla fine, davvero indipendenti. Da tutti. Cioè: soli.
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