Il riconoscimento della Palestina è l’unica soluzione

Il riconoscimento della Palestina è l’unica soluzione

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Il 13 otto­bre scorso, la Camera dei Comuni bri­tan­nica a stra­grande mag­gio­ranza (274 a favore con­tro 12) ha votato a favore dell’urgente rico­no­sci­mento diplo­ma­tico dello Stato di Palestina da parte del governo di Lon­dra. Poteva appa­rire come un gesto insi­gni­fi­cante. Non costi­tuiva una riso­lu­zione con obbli­go­rietà e il pre­mier Came­ron dichiarò che il voto par­la­men­tare non avrebbe avuto alcuna influenza sulle diret­tive del governo. Di fatto, sino ad oggi la Gran Bre­ta­gna in accordo con il resto dell’Europa Occi­den­tale, ade­ri­sce all’ostinata opi­nione di Israele, come un’eco pre­o­ve­niente da Washing­ton, che il rico­no­sci­mento della Palestina come Stato può venire sola­mente mediante una solu­zione al con­flitto, nego­ziata fra le parti stesse.

E poi, per­ché mai la deci­sione di un par­la­mento dovrebbe esser con­si­de­rata così impor­tante? Dopo tutto, la Palestina ha già otte­nuto il rico­no­sci­mento con l’approvazione di 134 paesi sin da quando Yas­ser Ara­fat, sin dal 1988, dichiarò l’esistenza di uno stato Pale­sti­nese con la deli­mi­ta­zione dei ter­ri­tori del 1967. Tale sot­to­va­lu­ta­zione faceva anche parte della tat­tica di Israele nella stessa rispo­sta. Prima del voto lo stesso Neta­nyahu hanno per­sino insi­stito che tale passo avrebbe seria­mente dimi­nuito le pro­spet­tive di nuovi nego­ziati e dan­neg­giato ogni pro­spet­tiva di pace. Poi il tono del governo di Israele è cam­biato: il voto è diven­tato insi­gni­fi­cante, privo d’importanza.

Di fatto, l’iniziativa della Camera dei Comuni ha costi­tuito una impor­tante vit­to­ria sim­bo­lica per i pale­sti­nesi. Sino a quando il governo della Sve­zia il 30 otto­bre scorso non ha rico­no­sciuto lo Stato di Pale­stina, diven­tando il primo governo dell’Europa occi­den­tale ad osare di rom­pere le righe sull’interpretazione degli accordo di Oslo secondo la ver­sione di Israele e degli Usa; per la quale una solu­zione poteva venire solo con nego­ziati diretti, con gli Stati Uniti come intermediari.

L’iniziativa inglese — e poi quella sve­dese ndr — implica non sol­tanto che l’estensione del diritto a rico­no­scere la Palestina costi­tui­sce una fase sto­rica di costru­zione dei Paesi euro­pei, ma costi­tui­sce una indi­retta ammis­sione che que­sto approc­cio agli accordi di Oslo, dopo oltre 20 anni di futi­lità, non va più guar­dato come la base con­sen­suale per la riso­lu­zione del con­flitto arabo-israeliano.

Per­ché l’iniziativa dei Comuni di Lon­dra com­pren­dere gli svi­luppi della recente diplo­ma­zia da parte dell’Autorità Pale­sti­nese (Anp): innanzi tutto l’accordo Fatah-Hamas di aprile per la for­ma­zione di un governo di unità nazio­nale e, ancora piu impor­tante, la riso­lu­zione da sot­to­met­tere ai mem­bri del Con­si­glio di Sicu­rezza dell’Onu da parte dell’Anp nella quale venga richie­sto il ritiro di Israele ai con­fini del 1967 rico­no­sciuti da due Riso­lu­zioni Onu, inclusa East Jeru­sa­lem, non oltre la data di novem­bre 2016.

C’è da aspet­tarsi che gli Stati uniti oppon­gano il veto a que­sta Riso­lu­zione qua­lora non sia in grado di otte­nere una influente pres­sione sui nove stati mem­bri del Con­si­glio di Sicu­rezza dell’Onu impe­dendo loro di votare in modo favo­re­vole. Il fatto è che l’Anp da Ramal­lah non ci sta più a scom­met­tere sui tempi di attesa che hanno dato ad Israele l’opportunità per l’espansione mas­sic­cia degli inse­dia­menti nei ter­ri­tori occu­pati e per la «puli­zia etnica» a Geru­sa­lemme est come punto di non-ritorno.

Mah­moud Abbas nel discorso del 26 set­tem­bre all’Assemblea gene­rale dell’Onu ha chia­ra­mente annun­ciato che si rifiu­tava di coo­pe­rare con que­ste mano­vre diplo­ma­ti­che faci­li­tate dai prin­cipi di Oslo. Sod­di­sfa­cendo le richie­ste pres­santi venute dalla base pale­sti­nese, Abbas ha voluto segna­lare senza alcun dub­bio che non pre­ten­deva di rivol­gersi ad «un part­ner per la pace» e così facendo ha pas­sato la mano a Tel Aviv. Lo ha riba­dito con chia­rezza quando ha descritto i 50 giorni dell’operazione mili­tare di Israele a Gaza que­sta estate come «una guerra di genocidio».

La parola «geno­ci­dal» ha chia­mato in causa Neta­nyahu che, alcuni giorni dopo, ha accu­sato il discorso di Abbas di essere «ver­go­gnoso». (…) Due gli eventi che dall’ultima guerra con­tro Gaza hanno avuto un valore signi­fi­ca­tivo: innanzi tutto la diplo­ma­zia inter­go­ver­na­tiva sta disco­stan­dosi dal cosid­detto «Oslo Approach» e l’Europa occi­den­tale comin­cia a riem­pire quel vuoto diplo­ma­tico crea­tosi con il fal­li­mento della serie di col­lo­qui di John Kerry fra Israele e l’Anp.

In secondo luogo la società civile non vio­lenta, con il suo impe­gno e lea­der­ship poli­tica, comin­cia ad occu­pare una cen­tra­lità di pal­co­sce­nico per le spe­ranze e sogni dei pale­sti­nesi, mediante la cam­pa­gna di boi­cot­tag­gio eco­no­mico (Bds) visi­bile ad Oakland, Cali­for­nia (Usa) dove i por­tuali rifiu­tano di sca­ri­care cargo israe­liani. A quando una presa di posi­zione dei par­la­menti euro­pei, a par­tire da quello italiano?

* Rap­por­teur dell’Onu su Gaza



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