Il premier Renzi guarda oltre le riforme: la partita è il Colle

Il premier Renzi guarda oltre le riforme: la partita è il Colle

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ROMA «Domani (oggi per chi legge, ndr ) non è un voto sul governo, il governo vince se fa le cose»: non è una frase di comodo questa di Matteo Renzi. La classica affermazione del presidente del Consiglio che vuole mettersi al riparo da un’eventuale sconfitta. Anche perché tutti sanno che non è questo il problema di oggi per il Partito democratico.
È una questione ben più importante. Riguarda la credibilità del premier e del suo governo («Voglio vedere chi mi accuserà ancora di annuncite»). E non solo. Perché se Renzi porterà a casa i «fatti» entro l’anno, cioè il Jobs act e la riforma elettorale al Senato, sarà più difficile per i suoi avversari, dentro e fuori il Parlamento, dargli del filo da torcere. E giocare contro di lui la partita della successione a Napolitano.
«I gufi erano andati in letargo, ora si sono risvegliati, dovremo rimandarli a dormire», scherza il premier, che ha deciso di passare questo weekend in casa e in — relativa — tranquillità. Il Jobs act lo dà ormai per fatto, nonostante i resistenti del Pd che si oppongono ancora: «Io non sto cercando la prova di forza, ma non mi faccio bloccare dall’ostruzionismo. Per quanto mi riguarda il tempo dei compromessi al ribasso è finito», confida il premier ai collaboratori.
Questo discorso vale per la minoranza del Partito democratico alla Camera, ma anche per Sinistra ecologia e libertà di Nichi Vendola e i grillini. Fuori del Parlamento, però, ci sono i sindacati e le manifestazioni di protesta. Per questa ragione il premier ha invitato i suoi a «non partecipare alla gara degli insulti», tanto più dopo la «gaffe» che Maurizio Landini gli ha «offerto su un piatto d’argento».
Il motivo del richiamo alla prudenza è questo, come ha spiegato lo stesso premier ai parlamentari che gli sono più vicini: «Io non sono preoccupato per le accuse di chi vuole mantenere lo status quo, di chi vuole difendere i patronati e la concertazione di un tempo, ma mi preoccupa il clima che certe persone stanno creando nel Paese. Noi, sia chiaro, non siamo contro i sindacati, anzi, siamo con loro quando creano lavoro, come all’Ast di Terni, dove siamo vicini alla soluzione».
Secondo capitolo, la legge elettorale. Anche quella «deve passare entro dicembre»: «Bisogna comunque chiudere entro l’anno», è il suo ritornello. E su questo Matteo Renzi è irremovibile, anche perché a Palazzo Madama il voto è palese e «tutti dovranno metterci la faccia».
La norma transitoria, quella secondo cui il nuovo sistema elettorale della Camera dovrebbe entrare in vigore solo quando verrà varata la riforma del Senato, può esserci esclusivamente a legge «definitivamente approvata». Perché come hanno spiegato tutti i costituzionalisti vicini al premier, Ceccanti, D’Alimonte e Clementi, allo stesso Renzi, da questo punto di vista non c’è problema. Si potrebbe andare a votare con due sistemi differenti per la Camera e per il Senato, se fosse il caso.
E allora porre questo problema, com’è stato fatto, secondo i renziani è un modo per cercare di rallentare l’iter della riforma elettorale e impedire che il premier porti a casa il risultato entro dicembre: «Avendo capito che non riescono più a fermare il Jobs act alla Camera, adesso provano a frenare il nuovo sistema elettorale». «Ma non ci riusciranno, assicura il vicepresidente dell’assemblea di Montecitorio Roberto Giachetti. E i renziani si stanno preparando anche alla partita finale: quando la riforma arriverà alla Camera per l’approvazione definitiva. «Eventuali emendamenti per ampliare le preferenze a voto segreto non passeranno mai», avvertono.
Se avrà segnato questi due punti, per Renzi sarà più facile affrontare la partitissima del Quirinale. Il presidente del Consiglio sa che c’è un disegno per metterlo sotto tutela, per trovare un successore di Napolitano che lo condizioni e gli leghi le mani. Ma, come ama ripetere spesso lui, «basta tecnocrati, la parola deve tornare alla politica». E Renzi, personalmente, si sta preparando a farla tornare. «Sento fare tanti nomi, soprattutto dai commentatori, ma passeranno mai in Parlamento? E poi aspettiamo rispettosamente le decisioni di Napolitano», ripete insistentemente ai suoi. Lui un nome ce l’avrebbe: Paolo Gentiloni. Ma i giochi sono ancora all’inizio e il premier non vuole bruciare le sue carte.
Maria Teresa Meli


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