Quelle ferite aperte nello stato di diritto
Crediamo in molti di sapere come funzionano i Cie, le istituzioni totali in cui vengono rinchiusi per un tempo indeterminato i migranti non autorizzati, gli irregolari, i cosiddetti clandestini. Abbiamo denunciato i soprusi che vi avvengono. Ci sono state manifestazioni di protesta e anche interrogazioni parlamentari, quando la sinistra era rappresentata in parlamento. E poi, inevitabilmente, abbiamo dovuto ammettere che in una società «civile», «democratica», «umana» ecc. si diffondono spazi recintati in cui i diritti elementari vengono violati legalmente, senza che la magistratura possa intervenire, senza che l’opinione pubblica sappia o voglia sapere, senza che noi, cittadini a pieno titolo, possiamo conoscere i crimini commessi in nostro nome, senza, insomma, che cambi nulla.
Adesso, questi crimini sono oggetto di un saggio densissimo di Donatella Di Cesare (Crimini contro l’ospitalità. Vita e violenza nei centri per stranieri, il melangolo, pp. 103), che analizza logica, struttura e funzionamento dei Centri di internamento ed espulsione, dando oltretutto la voce a chi vi è internato. Di Cesare ha visitato a due riprese il Cie di Ponte Galeria e quindi racconta quello che ha visto. Il fatto interessante è che non è una giornalista o una sociologa, ma una filosofa, nota, tra l’altro, per i suoi studi sull’ermeneutica, Gadamer, l’etica ebraica, il negazionismo e molto altro. Ma il fatto di non essere un’osservatrice di professione conferisce alla sua indagine una semplicità e un’immediatezza che raramente si riscontrano nei testi sociologici o etnografici, appesantiti come sono dalla langue de boisdelle scienze sociali. E, soprattutto, Crimini contro l’ospitalità è del tutto privo del narcisismo che talvolta si affaccia nei resoconti di militanti e ricercatori quando visitano i Cie («Ah, come soffro nel vedere gli altri che soffrono!»).
Di Cesare descrive, con l’apparente oggettività e la secchezza di chi cova un vero furore per ciò che vede (ma è capace di trattenerlo), le procedure a cui è sottoposto chi visita uno di questi centri di internamento, le barriere senza fine, le giornate nulle degli internati, le vessazioni, la segregazione dagli altri e dal mondo, le vite senza scadenze, l’incertezza sul futuro, non diversamente da quanto Goffman o Foucault o Basaglia avevano scritto di prigioni o ospedali psichiatrici, con la differenza che qui non ci sono giudici di sorveglianza a cui appellarsi o psichiatri visionari, non c’è il diritto da invocare o la rivolta da accendere contro ordinamenti medievali – ma il vuoto, l’illegalità neutra e atroce del cosiddetto stato di diritto; e dietro, l’indifferenza dei cosiddetti democratici, la scomparsa di un’opinione in grado di arginare i fascismi di stato, le facce, inespressive più che torve, di tutti quelli che i Cpt e i Cie li hanno votati, gente di destra e di centro, e gente che magari si ritiene di sinistra. E dietro e dentro ci sono anche le connivenze delle cooperative (magari di Legacoop), di medici e psicologi che impongono sedativi, dei cosiddetti mediatori culturali, cioè di tutti gli operatori che «aiutano», offrono un «sostegno», «assistono», «mediano». Nient’altro che poliziotti senza pistola. «La psicologa e la mediatrice culturale mi seguono con lo sguardo sospettoso», scrive a un certo punto Di Cesare su una sua visita a Ponte Galeria, e queste parole spiegano tutto.
Se pensiamo che gli internati sono scampati a stragi o alla fame nei paesi d’origine, alle milizie armate, alle traversate dei deserti, agli annegamenti nel Canale di Sicilia, l’orrore dei Cie apparirà ancora più insostenibile. E intollerabili le cagnare leghiste o neofasciste contro gli immigrati. Ma i latrati di alcune minoranze non alleggeriscono la responsabilità di una società in grande maggioranza indifferente all’apertura di queste vere e proprie lacerazioni nello stato di diritto, all’avvento di uno stato penale al posto di quello che si pensava legale. Dopo aver riflettuto sul significato dei campi nella nostra cultura, Di Cesare sottolinea giustamente che non abbiamo alcun merito nel vivere da questa parte del confine che separa privilegi e povertà. E che un’istituzione insensata e costosa come la rete dei Cie ha una funzione simbolica e non pratica – quella di mantenere nella paura tutti quelli che stanno dall’altra parte e hanno questa assurda pretesa alla libertà e al benessere di cui noi godiamo grazie alla mera contingenza storica.
L’appello «ai miei concittadini» con cui si conclude il saggio, l’appello a chiudere i Cie, affinché nemmeno uno straniero sia più tenuto «tra le grate», nella lacuna del diritto e nella totale assenza di giustizia, non avrà effetti pratici. Ma questo non ne fa certamente un appello retorico. Chiunque non sia avvelenato dall’abitudine e dall’indifferenza in materia di giustizia reale, sociale e politica, sa che i Cie sono un’ignominia. E che la loro istituzione è una macchia sul nostro tempo, sul nostro paese e su noi che ci viviamo. E quindi ha perfettamente ragione Donatella Di Cesare, in conclusione del suo bel saggio, a ricordarcelo.
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