Prima e dopo la jihad ecco i volti dei ragazzi convertiti alla morte

by redazione | 18 Novembre 2014 11:11

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PRIMA e dopo: abbiamo davanti le fotografie di giovani uomini. Prima di cambiar vita, prima di cambiar barba, prima di essere uccisi e di uccidere. Domenica, nel nuovo video, diffuso dal sedicente Stato Islamico, girava la giostra del cambiamento di vita. La vittima singola, estratta dal mucchio e predestinata, perché occidentale, era l’americano dell’Indiana Peter Edward Kassig. Appena ventiseienne, Kassig aveva vissuto almeno due volte. Ranger in Iraq, ne era stato congedato “con onore”, aveva studiato Scienze politiche, ed era tornato in Medio Oriente per fondare un’associazione impegnata nell’assistenza medica alle vittime della guerra civile siriana. Catturato dai jihadisti, nell’anno in cui stette nelle loro mani e ne patì le torture, si convertì all’Islam e prese un nuovo nome, il sigillo di una vita nuova: Abdul Rahman.
Prima di vedere come la vicenda di alcuni dei suoi carnefici somigli e contraffaccia la sua, bisogna ammirarne una peculiarità. Il video non mostra l’esecuzione di Kassig, a differenza di quelli degli ostaggi occidentali trucidati in precedenza, e di quello contemporaneo dei piloti di Assad, che arriva a compiacersi della decapitazione al rallentatore e da inquadrature diverse, col deliberato accompagnamento di rumori raccapriccianti. La testa di Kassig è già deposta ai piedi del suo assassino, la star del programma, Jihadi John, né vengono trasmesse ultime parole della vittima che, come nei compagni di sventura che l’hanno preceduto, suonino condanna dell’Occidente e dei suoi governanti.
Se non si può imputare a chi si trovi in una totale e orribile balìa di macellai invasati un cedimento, si deve però immaginare che Kassig non si sia prestato a recitare docilmente la scena predisposta dagli assassini. Jihadi John dichiara laconicamente che «Peter Edward Kassig doesn’t have much to say» — non ha molto da dire. Poiché la sobrietà non è il suo forte, bisogna pensare che Kassig non abbia avuto da dire niente che stesse al loro gioco. E a suggellare questo primo giro della giostra delle vite cambiate sta il rifiuto degli assassini di chiamarlo col suo nome di convertito, mentre è con quello, Abdul Rahman, che i suoi genitori lo ricordano, così assegnando alla sua conversione una libertà.
Nel video in cui sono filmate le decapitazioni dei militari di Assad legati e fatti inginocchiare ciascuno sotto il proprio macellaio, figurano un jihadista inglese e due francesi. Sono a viso scoperto, perché devono servire da modelli al reclutamento europeo, e perché per loro non c’è ritorno. Sono, i due di cui è già stata raccontata la storia, anch’essi protagonisti del cambiamento di vita, nella sua espressione che vuol essere la più nobile: la conversione.
Nasser Muthana, il gallese di Cardiff — non riesco a prendere sul serio il povero passo indietro del padre — ha imboccato un percorso inverso a quello di Kassig: era uno studente di Medicina, “promettente”, e ha lasciato; insieme a un fratello diciassettenne è andato in Siria, si è procurato il nuovo nome, e in lode del suo dio è diventato tagliatore di teste. «È differente da lui, anche se sembra lui, è molto dimagrito», ha detto il disgraziato padre.
I giornali mostrano i ritratti del prima e del dopo. Una camicia bianca a righe azzurre e una capigliatura castigata a sinistra, una sciarpa attorno al capo e una mimetica, o una tuta nera, a destra. E poi i luoghi: una strada pedonale di Cardiff lustra di pioggia, e quella specie di deserto siriano. Prima e dopo. Il francese ha 22 anni ed è il caso più piccante ed increscioso, perché è francese de souche, non di sia pur remota origine yemenita, come il padre di Muthana. Viene dalla Normandia di un paesino chiamato Le Bosc-Roger-en-Roumois, e il nome che ha lasciato per prendere quello di Abou Abdallah Al-Faransi (il francese, appunto) è Maxime Hauchard. La sua non è stata la conversione da un islamismo indolente al jihad, bensì da un cristianesimo di famiglia all’Islam, quando era diciassettenne.
Prodigo di comparse sui social media, ha raccontato che l’addestramento in Siria è stato «piuttosto una vacanza». «Il mio fine è il martirio», ha detto, e non sarebbe stata una frase significativa, senza l’avverbio che l’ha conclusa e per così dire perfezionata: «ovviamente». Il martirio, ovviamente. Come ci si può interrogare su una metamorfosi così, da Le Bosc-Roger-en-Roumois alla decapitazione di un inerme, sentita come ovvia? Lo zio Pascal non riesce a crederci, mio nipote non avrebbe ucciso una mosca, dice, e volete che prenda un coltellaccio e tagli una testa? Lo zio Pascal non può immaginare che la distanza fra il prima e il dopo possa arrivare fino a questo punto, ovviamente.
E noi? Guardiamo i ritratti doppi dei “nostri ragazzi” che hanno cambiato vita e sono diventati tagliatori di teste, si sono convertiti. Sono lì, nel lungo plotone dei boia, e hanno un’aria tesa, si direbbe, come per un esame, e sotto di loro la fila equivalente degli agnelli, e ancora per un momento si può sperare che sia una recita, che un angelo arrivi, che i boia rompano le righe, che almeno un agnello si rivolti. No, tutto si compie. Corriamo un gran rischio: di leggere la vita di dopo già nella fisionomia di prima. È vero che sono attraversate da un cambiamento, se no dovremmo rassegnarci a pensare che con la stessa faccia, la stessa espressione, si possa andare a lezione di anatomia a Cardiff e a segare un collo in Siria. Ma non pretendiamo di riconoscerlo, o tutt’al più nella foggia delle uniformi e delle barbe. Se andassimo oltre, se non trovassimo più niente di umano nella fisionomia dei boia, rischieremmo di vedere un boia, domani mattina, nella faccia di uno studente di medicina.
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