ROMA C’è una questione che aleggia sul processo alla cosiddetta trattativa Stato-mafia: il presunto tentativo di condizionamento dell’inchiesta condotta dalla Procura di Palermo. Che, visto da un’altra angolazione, si chiama richiesta di coordinamento fra indagini di diversi uffici giudiziari (in quel caso, oltre a Palermo, Caltanissetta e Firenze).
È il motivo «ufficiale» delle telefonate dell’ex ministro Nicola Mancino al Quirinale, sfociate nelle polemiche sui colloqui con il consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio, poi nella lettera di D’Ambrosio al capo dello Stato e infine nella deposizione di Giorgio Napolitano davanti alla Corte d’assise. Il quale ha toccato anche questo argomento, pur senza entrare nel merito della vicenda, sostenendo la correttezza dei comportamenti del suo consigliere; come già avevano fatto, nel corso del dibattimento, il segretario generale del Quirinale Donato Marra e il procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani.
«Sul tema del coordinamento — ha spiegato il presidente della Repubblica rispondendo a uno dei difensori di Mancino —, sicuramente ne abbiamo discusso con D’Ambrosio, e condividevamo in pieno la necessità di dare rilievo a questo che d’altronde è qualcosa di scritto nelle norme. È scritto nell’ordinamento che ci debba essere coordinamento di attività investigative che insistano sugli stessi oggetti. L’ho detto poi pubblicamente parlando al Csm, e non ho motivo per modificare quella mia convinzione».
Più avanti, su domanda dell’avvocato di Totò Riina, Napolitano ha precisato che in passato c’era stato un intervento a seguito dei conflitti tra le Procure di Salerno e Catanzaro: «Sui contrasti tra autorità giudiziarie il dottor D’Ambrosio interveniva con suoi consigli presso di me, indipendentemente dalle indagini portate avanti da più Procure sulle stragi. Anche in altra precedente occasione, su altra materia, ci si era trovati di fronte a un contrasto aperto, lei ricorderà i titoli dei giornali “Guerra tra Procure”; lo dico perché come presidente del Csm non potevo ignorare la cosa. E di fronte a questi contrasti, invocava appunto il principio del coordinamento».
Dopo le parole del presidente della Repubblica sul «ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema» ad opera della mafia con le bombe del 1993, Mancino — all’epoca ministro dell’Interno e oggi imputato di falsa testimonianza — commenta: «Non è una rivelazione di oggi, e io la condivido. Fu una strategia che cominciò dopo la sentenza della Cassazione che a gennaio del ’92 confermò gli ergastoli contro i mafiosi, a partire dall’omicidio Lima in poi. Ed è vero che se non ci fosse stata la strage di via D’Amelio avremmo impiegato molto di più a far approvare il decreto legge che introdusse il carcere duro. Io sono stato uno di quelli che ha sempre combattuto la mafia, basta rileggere gli atti parlamentari. Quando ci fu l’attentato ai Georgofili (maggio 1993, ndr ) convocai a Firenze un comitato per l’ordine pubblico, e c’era chi sosteneva che la mafia non c’entrava. Io invece dissi, anche in televisione, che si trattava di una bomba di origine mafiosa; sono stato uno dei primi a parlare di persone e terrorismo mafioso. Dopodiché se tutti dicono di non aver saputo niente della trattativa, perché avrei dovuto saperne qualcosa io che sul carcere duro per i boss non avevo alcuna competenza funzionale?».