Jobs act, Renzi convince quasi tutto il Pd

Jobs act, Renzi convince quasi tutto il Pd

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ROMA Dopo il patto con Forza Italia, Matteo Renzi si occupa di trovare la quadra nel suo partito, che minacciava di mettersi di traverso sul Jobs act. E la trova, con un incontro risolutivo in commissione Lavoro: il governo rinuncia a mettere la fiducia sul testo passato in Senato e accetta alcune modifiche. Con due conseguenze: la rottura della minoranza, con Roberto Speranza, Cesare Damiano e molti bersaniani che convergono e gli irriducibili (Gianni Cuperlo e Pippo Civati, tra gli altri) che restano fermi nel dissenso. L’altra conseguenza è la levata di scudi del Nuovo centrodestra. Che insorge per le modifiche e chiede un vertice di maggioranza. Nonostante gli ostacoli, Renzi si dichiara entusiasta: «Il primo gennaio entreranno in vigore le nuove regole sul lavoro: è un grandissimo passo in avanti. E la legge elettorale ormai è in dirittura d’arrivo: l’accordo c’è, non c’è più nessuna trattativa».
Considerando il rischio di uno scontro frontale con la minoranza del suo partito, il premier ha preso in mano la situazione, dopo l’incontro con Silvio Berlusconi, e si è confrontato a lungo con Roberto Speranza, capogruppo a Montecitorio, e leader di una nuova generazione di postbersaniani.
Il lavoro tecnico è stato poi fatto in commissione, protagonisti Filippo Taddei, responsabile renziano dell’economia del Pd, e Cesare Damiano, minoranza dem, ex Cgil (in piazza il 25 ottobre) che si dichiara «molto soddisfatto». Alla fine si decide di intervenire su alcune materie: l’articolo 18, che comprenderà il reintegro anche per licenziamenti discriminatori e disciplinari ingiusti (come deciso in direzione pd), controlli a distanza, cure parentali, monitoraggio degli effetti della delega e impegno ad aumentare i fondi per gli ammortizzatori sociali (nella legge di Stabilità).
Strappato il sì a una parte della minoranza, restano le critiche di Civati e Cuperlo. Che spiega: «Non c’è una parola sui licenziamenti, così ci sarebbe un eccesso di delega. Resto dell’idea che non si possono escludere dal reintegro i licenziamenti manifestamente infondati».
Ma Area riformista (Speranza) sembra aver assorbito gran parte del dissenso. Stefano Fassina: «Vediamo, ma il governo fa un passo indietro, molto apprezzato». Dopo gli emendamenti non è esclusa la fiducia sul nuovo testo, come precisa Renzi. Che da Bucarest promette: «Dal 2015 l’articolo 18 sarà superato». Risolto un problema nel Pd, ne sorge un altro. Renato Brunetta (FI) protesta: «Anteporre il Jobs act alla legge di Stabilità e fissarlo al 26 novembre è un sopruso». Maurizio Sacconi (Ncd) chiede un nuovo vertice di maggioranza: «La riforma sia vera o non la votiamo». La prima risposta del ministro Maria Elena Boschi sembra un no: «Basta il lavoro parlamentare». Parole che provocano l’irritazione di Nunzia De Girolamo: «Non è la portavoce di Renzi». Ma l’interpretazione autentica della Boschi è questa: nessun «no» secco, solo che non serve un «vertice partecipato come quello di lunedì», ci saranno «incontri di maggioranza».
De Girolamo e Sacconi vanno a parlarne a Palazzo Chigi. Interlocutorio il commento: «La partita è aperta. Non partecipiamo al patto del gambero». Anche Scelta civica, con Pietro Ichino, è in allarme: «Qualunque modifica va concordata in maggioranza». Duri i 5 Stelle: «Tutti in ginocchio di fronte ai capricci del premier».
Alessandro Trocino


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