ROMA .Sciopero generale separato: lo faranno Cgil e Uil ma non la Cisl. La Uil, che proprio oggi aprirà i lavori del sedicesimo congresso confederale, con il passaggio del testimone da Luigi Angeletti a Carmelo Barbagallo, ha rotto gli indugi e ha proclamato lo sciopero contro le politiche del governo. La data dell’astensione generale sarà fissata oggi ed è quasi scontato, a questo punto, che non sarà più il 5 di dicembre, giorno scelto in precedenza dalla Cgil di Susanna Camusso. Cadrà comunque nella prima decade del prossimo mese.
Scenario sindacale del tutto inedito, dunque, nel giorno in cui la maggioranza di governo ha formalizzato l’intesa definitiva sul Jobs Act con la condivisione dell’emendamento sulla riforma del lavoro che ritocca l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, limitando la possibilità del reintegro nei soli casi di licenziamento discriminatorio e in alcune fattispecie (le fisserà il prossimo decreto delegato) di licenziamenti disciplinari, cioè nella stragrande maggioranza dei licenziamenti individuali. In tutti gli altri casi (sempre comunque nei licenziamenti economici) scatterà il risarcimento monetario (esentasse se si sceglierà la strada della conciliazione) il cui ammontare crescerà con l’anzianità di servizio del lavoratore. Contro l’emendamento hanno votato tutte le opposizioni che, subito dopo, in segno di protesta per come la maggioranza e il governo hanno gestito la discussione, hanno abbandonato la Commissione Lavoro. «Un voto contro l’autodelega di Renzi e Sacconi, un gesto simbolico molto forte contro lo scempio del Jobs Act», ha sintetizzato il parlamentare di Sel Giorgio Airaudo.
Il nuovo segretario generale in pectore della Uil, Barbagallo, ha voluto dare un segno di discontinuità rispetto alla precedente gestione. Non più l’asse preferenziale con la Cisl ma una sorta di strategia con alleanze a geometria variabile. E la risposta indiretta anche alla mobilitazione sindacale è arrivata dal premier, Matteo Renzi, attraverso la sua e-news. «Quando la cortina fumogena del dibattito si abbasserà, vedrete che in molti guarderanno al Jobs Act per quello che è: un provvedimento che non toglie diritti, ma toglie solo alibi. Toglie alibi ai sindacati, toglie alibi alle imprese, toglie alibi ai politici».
I tempi per l’entrata in vigore dell’ennesima riforma del mercato del lavoro saranno strettissimi. L’accordo di ieri dovrebbe consentire un rapido esame parlamentare. L’obiettivo è quello di far approvare la legge dalla Camera entro il 26 di novembre. Se si dovessero allungare i tempi il governo ricorrerà al voto di fiducia. Poi il testo passerà al Senato per la terza lettura visto che nella versione approvata a Palazzo Madama non c’era alcun cenno alla ristruttura dell’articolo 18.
Per il Jobs Act è stato azzerato il periodo di vacatio legis (quindici giorni), così da consentire al governo di varare entro 30 giorni i decreti delegati attuativi. In questo modo, fin da gennaio, si potranno assumere lavoratori con il contratto a tutele crescenti sostenuto dai forti incentivi fiscali (il taglio dell’Irap sul costo del lavoro) e contributivi (cancellati per i primi tre anni).
Nella stesura dei decreti delegati, il Parlamento sarà sostanzialmente estraneo. Il pallino sarà in mano al governo e in particolare ai tecnici di Palazzo Chigi. Non c’è dubbio che la formulazione contenuta nella delega, con l’emendamento presentato ieri dal sottosegretario al Lavoro, Teresa Bellanova, restringa già in partenza i casi nei quali è possibile il ricorso all’istituto del reintegro per i licenziamenti disciplinari. L’emendamento è stato ritoccato fino all’ultimo. Alla prima versione che prevedeva il diritto al reintegro nei casi di licenziamenti nulli e discriminatori e «a talune specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare ingiustificato », è stata preferita quella meno generica che parla di «specifiche fattispecie» anziché ipotesi. Il governo punta a limitare al massimo il reintegro nei casi di licenziamenti disciplinari e, nello stesso tempo, di ridurre i margini di discrezionalità da parte del giudice. Superando in questo modo anche i difetti che secondo i giuristi conteneva l’ultima versione dell’articolo 18, quella introdotta con la legge Fornero del 2012.