I neri a Obama: «Vieni a Ferguson» Ma il presidente ha le mani legate
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FERGUSON (Missouri) «Non ho mai visto leggi sui diritti civili varate perché si incendiavano auto e negozi, mentre ne sono state fatte diverse sull’onda di pacifici movimenti di protesta»: da quando il Gran Giurì della contea di Saint Louis ha giudicato il poliziotto Darren Wilson non punibile per l’uccisione di Michael Brown, un ragazzo nero di 18 anni, Barack Obama parla a ripetizione per cercare di calmare la rabbia che sta tracimando anche in manifestazioni violente qui a Ferguson e in tutti gli Stati Uniti (ieri ci sono state marce con molti blocchi di ponti e autostrade in 130 città di 37 Stati americani). Il presidente condanna la violenza, ma riconosce che la rabbia dei manifestanti ha giustificazioni antiche e recenti e promette che il governo continuerà a lavorare sul caso Brown e sui difficili rapporti tra la polizia e le comunità nere d’America.
Obama ha rotto subito il silenzio anche perché, accusato di aver deluso come presidente sia in politica estera che nei rapporti col Congresso e nella gestione dei problemi socioeconomici interni, sa di rischiare ora l’accusa di aver fallito anche sul fronte che doveva essere più congeniale a un presidente osannato per essere stato il primo nero capace di conquistare la Casa Bianca: l’attenuazione delle tensioni razziali.
I leader delle comunità afroamericane dicono, però, di non volere da Obama parole ma azioni, un piano preciso. E qui le opzioni del presidente sono limitate. Con la giustizia del Missouri che ha già assolto l’agente Wilson, il governo federale può intentare una seconda causa per violazione dei diritti civili e può mettere sotto inchiesta la polizia di Ferguson per verificare se nelle sue azioni sono ravvisabili pregiudizi razziali.
Ma tutte e due queste strade sono già state imboccate da tempio da Eric Holder, il ministro della Giustizia di Obama. Il primo procedimento, sono tutti d’accordo, finirà nel nulla: per una sentenza di violazione dei diritti civili sono necessarie prove schiaccianti che in questo caso non ci sono, soprattutto dopo il pronunciamento del Gran Giurì. L’indagine sulla polizia di Ferguson è destinata a durare parecchi mesi. Anche se verranno individuati comportamenti discutibili sul piano razziale, probabilmente tutto si risolverà nell’individuazione di nuove procedure più trasparenti e meno rudi durante pattugliamenti e ispezioni nei quartieri neri di Saint Louis.
Obama ha bisogno di qualcosa di più. «Vieni a Ferguson», gli chiedono i leader religiosi della comunità afroamericana. È un’opzione che la Casa Bianca non ha escluso, ma fin qui il presidente si è tenuto alla larga dal turbolento sobborgo divenuto il simbolo del disagio di tutti i ghetti neri d’America: troppo rischioso per l’immagine del presidente che rischia pesanti contestazioni se non attacca apertamente la polizia: una cosa che non può fare.
La prossima settimana la Casa Bianca convocherà i rappresentanti delle comunità e delle istituzioni per discutere e cominciare a definire qualche misura concreta, come l’obbligo per gli agenti in pattugliamento di avere sempre addosso una telecamera accesa. Non è molto, ma a seguire una linea più decisa su un problema antico quanto l’America Obama rischia di apparire un leader militante demolendo l’immagine di moderazione costruita in sei anni di presidenza passati a smussare gli angoli e a spegnere i focolai di tensione sulle questioni della razza.
Massimo Gaggi
I leader delle comunità afroamericane dicono, però, di non volere da Obama parole ma azioni, un piano preciso. E qui le opzioni del presidente sono limitate. Con la giustizia del Missouri che ha già assolto l’agente Wilson, il governo federale può intentare una seconda causa per violazione dei diritti civili e può mettere sotto inchiesta la polizia di Ferguson per verificare se nelle sue azioni sono ravvisabili pregiudizi razziali.
Ma tutte e due queste strade sono già state imboccate da tempio da Eric Holder, il ministro della Giustizia di Obama. Il primo procedimento, sono tutti d’accordo, finirà nel nulla: per una sentenza di violazione dei diritti civili sono necessarie prove schiaccianti che in questo caso non ci sono, soprattutto dopo il pronunciamento del Gran Giurì. L’indagine sulla polizia di Ferguson è destinata a durare parecchi mesi. Anche se verranno individuati comportamenti discutibili sul piano razziale, probabilmente tutto si risolverà nell’individuazione di nuove procedure più trasparenti e meno rudi durante pattugliamenti e ispezioni nei quartieri neri di Saint Louis.
Obama ha bisogno di qualcosa di più. «Vieni a Ferguson», gli chiedono i leader religiosi della comunità afroamericana. È un’opzione che la Casa Bianca non ha escluso, ma fin qui il presidente si è tenuto alla larga dal turbolento sobborgo divenuto il simbolo del disagio di tutti i ghetti neri d’America: troppo rischioso per l’immagine del presidente che rischia pesanti contestazioni se non attacca apertamente la polizia: una cosa che non può fare.
La prossima settimana la Casa Bianca convocherà i rappresentanti delle comunità e delle istituzioni per discutere e cominciare a definire qualche misura concreta, come l’obbligo per gli agenti in pattugliamento di avere sempre addosso una telecamera accesa. Non è molto, ma a seguire una linea più decisa su un problema antico quanto l’America Obama rischia di apparire un leader militante demolendo l’immagine di moderazione costruita in sei anni di presidenza passati a smussare gli angoli e a spegnere i focolai di tensione sulle questioni della razza.
Massimo Gaggi
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